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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2013 alle ore 15:29.
Con la notifica degli avvisi di conclusione delle indagini un primo capitolo, duro e doloroso, è archiviato. Il disastro ambientale di Taranto ha attivato un conflitto fra lavoro e ambiente che, nella sua drammatica modernità, ha superato quello, tipicamente novecentesco, fra lavoro e capitale. L'inchiesta sull'Ilva ha inferto una ferita al cuore economico e civile del Paese. I magistrati – impegnati a rivendicare l'unilateralità assoluta dei codici – hanno contribuito a trasformare il caso Ilva in un humus radioattivo in cui alligna di tutto: la contrapposizione fra la magistratura e la politica, uno strisciante sentimento anti-industriale, la scoperta di un sindacalismo per quindici anni corrivo con i Riva e poi pronto a massimalizzarsi, il ritratto di una famiglia di imprenditori che, se ha compiuto nell'acciaieria molti più investimenti tecnologici e ambientali di quanto l'emotività dell'opinione pubblica non voglia riconoscerle, ha scelto modi troppo spicci per gestire l'impatto sulla salute pubblica dell'impianto acquisito dall'Iri.
Nella lettura del provvedimento di notifica si percepisce una prudenza di fondo. È vero che ci sono 53 indagati. I Riva. I "fiduciari" con cui questi ultimi comandavano sulla fabbrica. Tanta parte della tecnostruttura della Regione Puglia. L'impressione, però, è che i magistrati non abbiano usato la rete a strascico. L'elenco è quello atteso da tempo. L'unico nome che sorprende, forse, è quello di Vendola. Questa cautela non può che avere una ragione: adesso le accuse andranno provate. Ci sarà, nella prossima primavera, finalmente il processo. Dunque, in quest'ultimo passaggio, la radicalità movimentista del capo della Procura Sebastio e del gip Todisco sembra avere ceduto il passo a una cadenza e a un formalismo più istituzionali. Il caso Ilva, in questo ultimo anno, ha assunto profili drammatizzanti. Adesso, però, incomincia un'altra fase.
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