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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2013 alle ore 14:03.
L'ultima modifica è del 20 novembre 2013 alle ore 14:08.

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È uno dei primi brand conosciuti e apprezzati al mondo, il marchio di un saper fare che ci distingue agli occhi degli altri Paesi. Creatività, qualità, italian life style che si esprimono principalmente nelle aree dell'abbigliamento, arredamento, automazione meccanica, agroalimentare.

Ma il mondo stesso è cambiato negli anni e il «Made in Italy» sempre più ha avuto bisogno di definizioni e tutele giuridiche puntuali, regole come riparo da contraffazioni, truffe, concorrenze sleali; da false o fallaci indicazioni d'origine che inducono in errore i consumatori.

Fatto in Italia. Cosa significa quella dicitura che pur tutti pronunciamo con orgoglio? Quando è lecito apporla sui prodotti? I confini dipendono dal settore in oggetto e sono individuati da una normativa che comprende diversi testi. Cos'è allora "Made in Italy"? E cosa "100% Italia"?
In generale, è possibile inserire il marchio d'origine "Made in Italy" se il prodotto è stato interamente realizzato in Italia o se in Italia ha subito l'ultima trasformazione sostanziale. «Possiamo quindi partire dalla distinzione tra due "Made in Italy"», spiega l'avvocato Antonio Bana, partner dello Studio legale Bana. «Il marchio previsto dalla legge 350/2009, che lo lega al criterio selettore del Codice doganale comunitario del 1992; e quello introdotto dal Dl 135/2009 (art.6, comma 1) che tratta del cosiddetto "full Made in Italy"».

Un marchio d'origine
La legge 350/2003 (legge finanziaria 2004, art.4, comma 49) specificava che «costituisce falsa indicazione la stampigliatura "made in Italy" su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine». La norma rinviava dunque al Codice doganale comunitario CE 2913/1992 (articoli 23-24), secondo il quale «una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un'impresa attrezzata a tale scopo, che sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione».

Questo è stato poi sostituito dal nuovo Codice aggiornato (regolamento CE 450/2008), che disciplina in un unico articolo (il 36) due principi: «Le merci interamente ottenute in un unico paese o territorio sono considerate originarie di tale paese o territorio. Le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l'ultima trasformazione sostanziale». Qui si fa riferimento all'origine (doganale) non preferenziale: indipendentemente dalle percentuali di merce nazionale o estera impiegate nella produzione. L'indicazione del marchio d'origine non è dunque concessa se l'attività di trasformazione non è svolta in Italia o se – anche svolta nel nostro Paese – è però marginale. Le indicazioni di provenienza o origine false o fallaci sono punite ai sensi dell'articolo 517 del Codice penale.

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