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Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2014 alle ore 10:27.

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L'Italia è l'unico Paese che non ha avuto il coraggio o la capacità di scegliere tra il rimanere un'economia su base industriale e manifatturiera o indirizzarsi verso altri settori (turismo, servizi). Una mancata scelta che ha di fatto depotenziato la capacità industriale del Paese e della quale oggi ne subiamo le conseguenze. Una mancata scelta che ha radici lontane, ma proprio perché il tema è così vecchio è ancor più grave il fatto che nessuno – nel corso del tempo – ci abbia posto rimedio. Preferendo la politica della "pezza" o della "pecetta" - come dimostrano le storie pubblicate in pagina - anziché quella della lungimiranza e dello sviluppo.

Se oggi l'Italia è ancora nel novero delle prime potenze industriali lo si deve unicamente a una classe imprenditoriale che, nei momenti bui come in quelli migliori, ha saputo rimettersi in gioco, ha saputo cavalcare "il genio italico", ha stupito concorrenti e mercati.
Dopo sei anni di crisi e recessione però, anche questa classe imprenditoriale, mostra segni di logoramento e stanchezza. Il mondo non è stato fermo. I mercati non hanno aspettato. Soprattutto innovazione, ricerca e tecnologia hanno compiuto balzi inimmaginabili. E, in particolare, durante la crisi molti Paesi ad economia avanza o emergente hanno messo in atto scelte importanti di politica industriale, pensando non all'immediato, ma al medio-lungo periodo, mettendo in prima linea le leve dei giovani, mentre l'Italia annovera il tasso più elevato di disoccupazione giovanile.
Questa situazione è molto ben documentata da una recente analisi del Centro studi di Confindustria a firma di Livio Romano, che scrive: «Non c'è più tempo da perdere. Da un'analisi comparativa delle politiche economiche adottate nei principali Paesi industriali, avanzati e non, dagli Stati Uniti all'Europa all'Asia, emerge come tutti si sono dotati di politiche industriali attive nel supporto all'innovazione. In altre parole, ovunque la politica industriale appare uno strumento "normale" di politica economica, ma non in Italia». E aggiunge: «Per rimanere al passo degli altri, il Paese deve individuare le idee di cambiamento, nei bisogni della società e nelle tecnologie, e costruire intorno ad esse una strategia di intervento che, con un approccio di sistema, massimizzi le potenzialità del suo tessuto produttivo».

A oggi nessun Governo ha compiuto queste scelte strategiche; nessun Governo ha indirizzato la sviluppo verso tecnologie innovative, verso l'implementazione di reti e connessioni all'avanguardia (la storia dell'Agenzia digitale è simbolica). Così, pezzo dopo pezzo, perdiamo i nostri storici "campioni" del manifatturiero mentre le multinazionali trovano sempre minor convenienza a investire o rimanere in Italia. Non è più solo un fatto di sistema Paese con le sue problematiche di sempre – fisco opprimente, burocrazia invadente, incertezza del diritto, elevato tasso di malavita e corruzione – ma ora è anche un fattore di competitività complessiva. A cui la politica politicante degli ultimi anni non ha fatto certo del bene.
roberto.iotti@ilsole24ore.com

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