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Questo articolo è stato pubblicato il 30 marzo 2014 alle ore 08:12.

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È tempo di eclissi della società di mezzo. Non splende più il sole della concertazione, né la parola chiave della rappresentanza. I più ingenerosi la chiamano palude. Accomunandola alla sfumatura di grigio di una burocrazia-tappo per la decisione politica, per di più vorace e strapagata, o alla vecchia politica locale nazionale sfinita in riti inconcludenti della produzione di consenso in tavoli di confronto in cui, più che la decisione, contava la retorica.
Racconto impietoso che la crisi accentua nella sua urgenza di decisioni politiche, economiche e sociali adeguate. Altrimenti si subiscono decisioni prese altrove. È l'eterno dilemma della democrazia in equilibrio tra il governare accompagnando o il governare comandando. Che ritroviamo nel confronto sulla riforma della legge elettorale e delle forme di governance territoriale. Percorsi alti, troppo alti per i microcosmi territoriali, ma che non sono affatto estranei al nostro andare nel non più di province diventate area vasta e nel non ancora di aree metropolitane in divenire. Vi si incontra l'attualità del rapporto tra territorio e politica: la faglia profonda tra élite e popolo alimentata dai populismi, la mutazione degli ex partiti di massa tra leggerezza e professionalizzazione, un emergere di democrazia diretta nella virtualità della rete, il tutto alimentato dalla crisi della rappresentanza e delle forme politiche diffuse. Che sarà bene ricordare nascono nella fase di modernizzazione politica e industriale del paese radicandosi su tradizioni civiche secolari dell'agire dei soggetti sociali che trasformano il territorio in uno spazio di auto organizzazione. Cercando di affrontare collettivamente la sofferenza comune della scarsità di mezzi poggiando sulla certezza dei fini organizzando mutue, leghe, cooperative, associazioni di mestieri che vengono ben prima del sindacato e della Confindustria.
È su queste reti di autodifesa dello spazio territoriale che i partiti si radicano nel Nordovest della Fiat, nel bianco Nordest, nelle regioni rosse del Centro e nel Mezzogiorno della riforma agraria. Famiglia, piazza, paese, campanile sono i canali per forgiare le sub culture che poi costituiranno l'infrastrutturazione della politica repubblicana a cui si aggiungerà la dimensione di classe nel conflitto tra capitale e lavoro con lo stato in mezzo. Molte delle reti comunitarie di auto organizzazione divengono spazio per l'innervatura dei partiti di massa e sussunte dentro gli apparati del welfare statale. In un doppio binario, anomalia e specificità italiana, che vede da una parte il percorso tutto fordista basato su Confindustria, sindacato e Stato in mezzo con l'Iri e le banche di interesse nazionale e dall'altra comuni, province, regioni, economia diffusa, distretti, cooperative. Per dirla con Rossi Doria, la polpa è la fabbrica l'osso è il territorio. Anomalia italiana che ci ha permesso di attraversare il 900, di realizzare il postfordismo italico, fatto di medie imprese leader che competono nella globalizzazione ancorate a un tessuto produttivo diffuso, continuando ad essere a tutt'oggi il secondo paese manifatturiero di Europa.
In questo sincretismo fecondo dell'anomalia italiana scavano due libri di storia confindustriale: "L'Italia della piccola industria dal dopoguerra ad oggi" di Valerio Castronovo e "Figli di papà a chi?" di Alberto Orioli. Non è un caso che siano dati alle stampe oggi, nel dibattito più ampio su che ne sarà della rappresentanza e sono stati discussi e presentati nel momento di passaggio del testimone alla presidenza della piccola industria da Boccia a Baban e dei giovani da Morelli a Gay. Segno di un vitalismo di strutture minori rispetto alla "grande Confindustria" che, forse per questo, avvertono più di altri il cambiamento di scenario per la rappresentanza di ciò che resta della grande impresa.
L'attuale fase politica, la crisi, l'Europa che verrà, impongono di affrontare di petto la questione della fibrillazione dei poteri intermedi e della società di mezzo sui territori: non solo comuni e province ma autonomie funzionali, rappresentanze, agenzie della governance economica. È una microfisica dei poteri territoriale che si sente messa in discussione rispetto alla cultura della crisi e a un indirizzo di governo fortemente centralizzatori che spesso concepiscono qualsiasi potere o livello intermedio come un costo, saltando a pie' pari la società di mezzo, comprese le rappresentanze degli interessi.
Credo vada accompagnata e stimolata nell'autoriforma più che delegittimata dall'alto. Sono tante le storie che, come scrive Orioli nel suo libro, hanno cambiato e cambiano la Confindustria, sono tante le discussioni e i dibattiti anche aspri che attraversano il sindacato, le camere di commercio hanno posto il tema di come cambiare guardando anche ai modelli europei, commercianti e artigiani hanno in Rete Impresa Italia un loro laboratorio che ha funzionato anche come mobilitazione unitaria del capitalismo molecolare in difficoltà, il mondo della cooperazione si sta unificando e si confronta con gli investimenti del finanziere Soros e l'urgenza di un nuovo mutualismo...
Per tutti è chiaro che è finita l'epoca del declinar crescendo e che necessita crescere cambiando, guardando a una composizione sociale produttiva in metamorfosi che chiede nuova rappresentanza per i tanti nuovi soggetti che vengono avanti. Lasciamoli lavorare. Mai come ora nella metamorfosi c'è bisogno di rappresentanza degli interessi e delle passioni.
bonomi@aster.it
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