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Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2014 alle ore 16:25.

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Sono soltanto 700 le aziende piemontesi con un fatturato superiore ai 25 milioni di euro. E nel 48% dei casi si tratta di aziende famigliari che, tra il 2007 ed il 2012, hanno investito 170 miliardi di euro, a fronte dei 110 miliardi di investimenti delle imprese non famigliari. Ancora più evidente le differenze per quanto riguarda le assunzioni nel medesimo periodo: aumentate del 19,45% per le aziende di famiglia e del 5,45% per le altre.

Sono alcuni dei dati emersi dalla ricerca condotta, per Unioncamere Piemonte, de Bernardo Bertoldi, Mia Zalica e Chiara Giachino del dipartimento di Management dell'Università di Torino, insieme a Sarah Bovini di Unioncamere.

Emerge, dunque, che le aziende famigliari, perlomeno quelle di maggiori dimensioni (considerando anche le più piccole si arriva al 70% di imprese di famiglia sul totale di quelle presenti in Piemonte), abbiano saputo affrontare la crisi meglio delle altre. Come dimostrano anche alcuni casi di successo, a partire dalla Azimut Benetti che fa capo alla famiglia Vitelli. Paolo, il fondatore, si è provvisoriamente dedicato alla politica lasciando il timone dell'azienda nautica (è il maggior costruttore mondiale di grandi yacht) alla figlia Giovanna. Un passaggio preparato da anni e che ha consentito all'azienda di affrontare l'azzeramento del mercato italiano con una politica di espansione sui mercati internazionali che, oggi, assorbono il 98% della produzione realizzata negli stabilimenti italiani.

E sull'estero è basata anche la crescita di un'altra azienda di famiglia, come la 2A guidata da Vincenzo Ilotte. Un settore che pareva maturo, come quello della fonderia, trasformato in un esempio di successo grazie agli investimenti. Ed anche questo accomuna 2A con Azimut. Che ha continuato ad investire sul prodotto e sulla ricerca attingendo, per la quasi totalità della somma, alle risorse finanziarie famigliari. Ma anche alla Paglieri, ha ricordato Debora Paglieri, presidente e amministratore delegato dell'azienda alessandrina, sino al 2003 tutti gli utili venivano reinvestiti nell'azienda, senza alcuna distribuzione tra i famigliari-soci. Anche successivamente, tuttavia, non sono mai mancate le risorse per innovare il prodotto, unica strada per competere con gruppi internazionali di dimensioni molto superiori.

Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché le imprese famigliari hanno caratteristiche diverse dalle altre aziende. «Noi lavoriamo sul lungo periodo, pensando al futuro dei nostri figli», ha spiegato Ilotte. Mentre i soci finanziari tendono a privilegiare la remunerazione del capitale investito nel più breve tempo possibile. Così i manager esterni tendono ad evitare iniziative che considerano rischiose, mentre spesso son quelle che favoriscono la crescita dell'azienda.

I problemi, come ha sottolineato l'avvocato Carlo Pavesio, presidente della Camera arbitrale del Piemonte, nascono però quando si tratta di garantire il ricambio generazionale o quando l'azienda deve affrontare il cambiamento del prodotto o dello stesso modo di lavorare per affrontare sfide nuove. Le grandi famiglie che, sino a pochi anni or sono, controllavano i grandi gruppi nel settore delle bevande alcooliche (Martini, Cinzano, Gancia) hanno dovuto confrontarsi con colossi multinazionali. E hanno passato la mano. Inoltre nascono spesso tensioni tra i soci famigliari e diventa fondamentale rivolgersi a consulenti esterni per dirimere le questioni più delicate.

Secondo Giovanna Vitelli, comunque, la proprietà famigliare deve avere un ruolo in azienda. Un ruolo di guida e di anticipazione e interpretazione della realtà. Affidando l'esecuzione ai manager scelti all'esterno. Ma tutto funziona - ha concluso Pavesio - se all'interno dell'azienda prevalgono rigore, trasparenza, disciplina. Per la remunerazione dei soci e dei manager, per i benefit, per preparare la successione. Maggior disciplina interna ed esterna significa maggiore successo.

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