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Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2014 alle ore 19:17.

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Taranto - L'ultima «tegola» giudiziaria gli era piovuta addosso nelle scorse settimane con la richiesta di rinvio a giudizio, da parte della Procura di Taranto, per il reato associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale. Emilio Riva, infatti, era uno dei 53 imputati ai quali lo scorso 30 ottobre la Procura di Taranto aveva fatto notificare l'avviso di conclusione degli indagini, chiedendo poi al gup disporre il processo. Un processo che comincerà a Taranto il 19 giugno, nella palestra del comando Vigili del Fuoco perchè si ritengono le aule del Tribunale insufficienti rispetto al numero di persone che sarà presente, e per il quale la famiglia Riva si prepara a dare battaglia puntando a trasferire il dibattimento in altra città perchè ritiene Taranto una realtà ormai troppo condizionata ai fini di un giudizio sereno.

Nel processo che prenderà il via a giugno, Emilio Riva era coinvolto insieme al figlio, Nicola. Entrambi, infatti, furono arrestati ai domiciliari il 26 luglio del 2012 su provvedimento del gip Patrizia Todisco. Il loro arresto, insieme al sequestro degli impianti dell'area a caldo del siderurgico di Taranto, è stato uno degli atti più eclatanti dell'inchiesta della Magistratura che, per oltre un anno, ha tenuto lo stabilimento sotto pressione. I due Riva sono tornati liberi solo a luglio scorso, dopo un anno esatto di detenzione, in quanto le istanze di libertà presentate dai loro avvocati sono state tutte bocciate, Corte di Cassazione compresa.

Ma la richiesta di rinvio a giudizio è solo l'ultimo tassello di una storia ben più complessa del rapporto tra Emilio Riva e Taranto. Una storia che comincia a maggio del 1995 e che approda quasi subito allo scontro con i sindacati metalmeccanici locali. Il patron dell'acciaio li mette all'angolo, ritenendo che il suo modello di gestione privata mal si conciliasse con organizzazioni che, abituate a trattare con i dirigenti delle Partecipazioni Statali quando l'Ilva era dell'Iri, di fatto gestivano la fabbrica in una sorta di consociativismo. Non migliori, poi, furono i rapporti iniziali di Riva con le imprese di Taranto. Rispetto allo schema dell'azienda pubblica, quindi, Riva operò una vera e propria rottura.

Ci sono stati più conflitti che intese in questi anni. Lo provano anche le diverse vicende giudiziarie nelle quali Emilio Riva si è ritrovato, due delle quali hanno visto le relative condanne confermate in Cassazione. Si tratta della sentenza per tentata violenza privata e per mobbing per il caso della palazzina Laf (dove l'Ilva «spedì», pagandoli senza fargli fare nulla, 60 lavoratori perchè ritenuti troppo sindacalizzati) e di quella per i danni ambientali causati con l'inquinamento alla città. Procedimento, quest'ultimo, per il quale il Comune di Taranto nelle scorse settimane ha chiesto un risarcimento danni di 3,3 miliardi di euro nei confronti dello stesso Riva, della capogruppo Riva Fire e dell'Ilva. Altro sequestro rilevante quello disposto a fine maggio 2014 dallo stesso gip Todisco per 8,1 miliardi nei confronti dei beni e dei conti del gruppo. Somma che per il magistrato costituiva l'equivalente di quanto serve alla bonifica. A dicembre, però, la Cassazione ha annullato senza rinvio questo provvedimento.

A Taranto, scriveva Emilio Riva in una pubblicazione di qualche anno fa, «è stato concentrato l'80 per cento di tutti gli investimenti del gruppo Riva in Italia e all'estero». E ancora: «Tutti gli utili sono stati interamente reinvestiti dal 1995 alla fine del 2009 per un investimento totale di 4,2 miliardi di euro». Uno degli investimenti fatti dalla gestione Riva è stato quello della linea di zincatura. Infine, dal 1995 al 2005, per effetto del turn over determinato dalle uscite anticipate con la legge sull'amianto, si calcola che l'Ilva abbia assunto a Taranto circa 10mila addetti.

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