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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2014 alle ore 07:29.

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La crisi profonda e duratura che ha colpito il nostro Paese, soprattutto a partire dal 2009, ha avuto tra le tante conseguenze anche quella di mettere in discussione un modello di business che in precedenza aveva funzionato, quello cioè della gestione familiare delle imprese, che in Italia è nettamente dominante. Eppure la «continuità familiare» è anche un valore per la nostra industria, che spesso ha saputo fare la differenza nel confronto con i competitor globali. Si tratta dunque, per queste aziende, di trovare un «nuovo paradigma di business» che le aiuti a uscire dalla crisi e prepari il rilancio, salvaguardando i punti di forza del passato.

Di quale debba essere questo nuovo paradigma si è discusso all'Università Cattolica di Milano, durante il convegno «Ma quanto vale la continuità familiare in azienda?». La risposta è ancora aperta, naturalmente, e la ricetta non è una sola: c'è chi spinge di più verso un modello di business che apra ai capitali esterni (attraverso quotazioni in Borsa, emissione di minibond, private equity...), chi invece ha saputo crescere e consolidarsi puntando quasi esclusivamente sulle proprie risorse.

Il punto di partenza lo fornisce una indagine condotta su 180 aziende di famiglia, monitorate annualmente tra il 2009 e il 2014, dall'associazione Cerif-Asam assieme all'Università Cattolica. «Abbiamo selezionato le aziende con un fatturato medio annuo tra i 5 e i 50 milioni di euro - ha spiegato Claudio Devecchi, docente della cattolica che ha coordinato la ricerca - campione rappresentativo di quelle che in Italia sono la stragrande maggioranza delle aziende, ovvero il 70%». Le imprese intervistate hanno messo in luce le maggiori criticità emerse in questi anni di crisi, e presentato le soluzioni messe in atto.

Sul fronte delle criticità, al primo posto (con il 60-80% delle risposte) è la pressione tributaria troppo elevata, che spesso impedisce alle aziende di autofinanziare il proprio sviluppo. A questa criticità fa seguito inevitabilmente la difficoltà di reperire fonti di finanziamento, tanto più in un Paese, come ha spiegato Devecchi, dove gli imprenditori sono ancora poco propensi ad adottare strumenti come il private equity, molto diffuso invece nei Paesi di cultura anglosassone. Segue il cosiddetto «rischio sistemico», ovvero la difficoltà da parte delle piccole e piccolissime aziende di "leggere" la dinamica e le prospettive del settore e del mercato in cui operano. Al terzo posto c'è la «riduzione della redditività», che apre all'ipotesi di vendita dell'azienda stessa.

Il quarto elemento di criticità - la gestione della successione - riassume in qualche modo tutti i precedenti. Nonostante brillanti eccezioni di aziende in cui la seconda e poi la terza generazione portano avanti con successo il progetto dei fondatori - magari con il valore aggiunto che deriva dai loro studi, dalle esperienze all'estero e da una maggiore consapevolezza degli strumenti anche finanziari a disposizione delle aziende - il passaggio del testimone rimane un problema cruciale per la maggior parte delle aziende familiari.

«Occorre imparare a gestire e programmare questa successione - ha detto il professor Devecchi - e la tempo stesso costruire dei percorsi di valorizzazione delle risorse umane e in particolare dei giovani talenti, per evitare che lascino l'azienda». Aprirsi a manager esterni capaci, e a capitali esterni, è una delle possibili soluzioni. Eppure, chiosa Devecchi, quello che emerge dalla ricerca è che le soluzioni adottate finora non sono (nella media) efficaci, se è vero che le criticità segnalate sono rimaste tali, sostanzialmente irrisolte, per tutto il periodo considerato. «A oggi - conclude la ricerca - non esiste un paradigma di business diffuso, adottato con consapevolezza dalle Pmi familiari»

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