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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2014 alle ore 13:33.
L'ultima modifica è del 18 giugno 2014 alle ore 20:28.

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I numeri sono importanti: 49 indagati, 3 società coinvolte, 266 parti lese, molte richieste di costituzione parte civile. E significativa è anche l'attesa a Taranto tant'è che per ragioni di spazio il processo non sarà celebrato in Tribunale nelle normali aule ma nella palestra del comando dei Vigili del fuoco. Nonostante questo, però, il processo per il disastro ambientale dell'Ilva, che comincia domani, si fermerà già alle prime battute. Forse già alla prima udienza di domani.

Pesa molto, infatti, un'istanza di rimessione depositata dagli avvocati del gruppo Riva e di altri indagati con la quale si chiede il trasferimento del processo ad altra città (nel caso specifico sarebbe Potenza) poichè a Taranto non ci sono le condizioni per un giudizio sereno ed equilibrato. Domattina, quindi, il giudice delle udienze preliminari Wilma Gilli, chiamata a valutare le richieste di rinvio a giudizio della Procura, dovrà decidere se fermarsi subito e inviare gli atti alla Cassazione, che però difficilmente si pronuncerebbe prima dell'estate, oppure ammettere le costituzioni di parte civile e poi attendere il verdetto della Suprema Corte.

Il processo, dicono i legali nell'istanza depositata nei giorni scorsi, va trasferito per «la pervasività del coinvolgimento ad ogni livello, la dimensione totalizzante del fenomeno, la pressione ambientale verso la chiusura dello stabilimento». Tutto questo, sostengono ancora, «trova riscontro in provvedimenti endoprocessuali intesi a perseguire il risultato prima dell'accertamento definitivo». A ciò si aggiunga «la circostanza esemplare - scrivono gli avvocati - che il processo sia colto e atteso dall'ambiente come la risposta definitivamente sanzionatoria destinata a determinare la irreversibile eliminazione del fattore (lo stabilimento) che per decenni e decenni ha condizionato la vita della città». In questo modo, dicono ancora gli avvocati, sono trasferite sul giudice «aspettative catartiche del tutto estranee alla funzione del processo penale» le quali «costituiscono elementi non controvertibili circa la sussistenza del pericolo» che la Cassazione ha posto a base dell'istituto della rimessione.

Il processo che si avvia a Taranto trae origine dall'inchiesta «Ambiente Svenduto» che a luglio 2012 sfociò in una serie di arresti e nel sequestro degli impianti dell'area a caldo del siderurgico. A monte una perizia consegnata dagli esperti al gip Patrizia Todisco che descriveva gli stessi impianti come «fonte di malattia e morte».
Nel processo sono coinvolti anzitutto i Riva, i proprietari dell'azienda, con i fratelli Nicola e Fabio, ai quali, in concorso con altri, è contestata l'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale. Nicola Riva ha già scontato un anno agli arresti domiciliari, dal 26 luglio 2012 al 26 luglio 2013. Fabio Riva, invece, colpito da un mandato di arresto europeo (doveva essere arrestato e portato in carcere il 26 novembre 2012), attende a Londra che la Magistratura inglese si pronunci sul suo ricorso contro il verdetto favotevole all'estradizione in Italia già pronunciato dai giudici britannici. Non c'è più Emilio Riva, presidente del gruppo, morto lo scorso 30 aprile, e oggetto delle stesse imputazioni fatte ai figli. Oltre ai Riva, coinvolti anche due ex direttori del siderurgico di Taranto, Luigi Capogrosso e Adolfo Buffo, il presidente Bruno Ferrante, una serie di dirigenti dello stabilimento, tra cui quelli arrestati ai domiciliari a luglio 2012.

Figurano, inoltre, i cosiddetti «fiduciari» di Riva, le persone con cui la proprietá aveva creato una direzione dell'impianto di Taranto «parallela» a quella ufficiale. E ancora, l'ex responsabile delle relazioni istituzionali dell'Ilva a Taranto, Girolamo Archinà, l'uomo che, per l'accusa, era utilizzato dai Riva per fare pressioni sulla politica, sulla pubblica amministrazione e sul sindacato perché l'azienda fosse comunque salvaguardata. C'è poi il livello politico, con i nomi del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, e del sindaco di Taranto, Ezio Stefàno. Al primo la Procura contesta la concussione aggravata, evidenziando che avrebbe fatto pressioni sull'Arpa Puglia e sul suo direttore generale, Giorgio Assennato, affinché «ammorbidisse» i contenuti delle relazioni dopo le ispezioni ambientali all'Ilva. Al sindaco di Taranto, invece, viene contestata l'omissione di atti d'ufficio, ovvero non aver dato seguito ad una relazione, trasmessa dallo stesso Stefàno in Procura, con cui si evidenziava la pericolosità dell'inquinamento del siderurgico.

Al di là dell'istanza di rimessione, la vicenda, negli ultimi giorni, ha registrato anche altre mosse della difesa degli indagati. Un'istanza di ricusazione al gup Gilli era stata infatti presentata dai legali dell'ex assessore provinciale all'Ambiente, Michele Conserva, arrestato nei mesi scorsi, per i quali il magistrato Gilli ha già giudicato Conserva. La Corte d'Appello ha però respinto la ricusazione parlando di capi di imputazione diversi. Conserva infatti entra nell'inchiesta per due volte: una prima per una vicenda legata all'attività della Provincia in materia ambientale ed una seconda per la discarica Ilva «Mater Gratiae». Resta invece il caso dell'ex presidedente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, anch'egli arrestato per la stessa discarica. I suoi avvocati contestano una trascrizione infedele delle intercettazioni. Nell'audio, infatti, si sente un dirigente della Provincia, presunto concusso, dire «non ho problemi a...». Nella trascrizione è stato aggiunto «firmare», termine che nell'audio non c'è e che per l'accusa sarebbe la prova della pressione esercitata sul dirigente da Florido e Conserva.

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