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Bolloré, l’uscita di Patuano da Telecom e il «dossier…

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il riassetto delle Tlc

Bolloré, l’uscita di Patuano da Telecom e il «dossier Italia»

«Discontinuità». È questo lo slogan, la parola d’ordine, il mantra di Vincent Bolloré. Quando mette i piedi in una società – anche se non da raider, ma da «azionista di riferimento di lungo periodo» – il top management in generale sa cosa deve aspettarsi. C’è un prima e un dopo Bolloré. All’insegna, appunto, della «discontinuità». È successo con Havas, con Vivendi, con Canal+ e Universal Music (in maniera molto rapida e brutale). È quello che i dipendenti e i collaboratori di Ubisoft e Gameloft (videogiochi per consolle e per smartphone) temono che accadrà quando l’imprenditore bretone vincerà la battaglia con i fratelli Guillemot. Ed è quello che sta accadendo con Telecom Italia.

Con Bolloré mai fidarsi dei sorrisi, delle strette di mano, della cordialità. E men che meno delle dichiarazioni di fiducia. Il suo obiettivo è la creazione di valore, possibilmente veloce, senza perdere troppo tempo nel far capire chi comanda (il metodo Bolloré). La sua forza è in una squadra di stretti collaboratori (tra cui i figli) molto compatta, fedelissima e, quella sì, costruita per durare (la continuità Bolloré). Ma anche in un percorso che se certo ha fatto molti morti (per fortuna virtuali) è oggettivamente caratterizzato quasi soltanto da successi.

Nel colosso Vivendi, Bolloré è entrato pressoché di soppiatto, apportando le due reti tv Direct 8 e Direct Star che gli hanno consentito di salire al 4,4 per cento. Ma non ci ha messo molto per prenderne il controllo e imporre i suoi uomini e le sue regole.

In Telecom Italia è arrivato quasi per caso, incamerando una quota dell’8,3% come ricaduta della cessione della brasiliana Gvt (agli spagnoli di Telefonica, dove ha tenuto un piedino dell'1%). Ma ha subito capito (o avuto la possibilità di sperimentare sul campo quanto aveva capito da tempo) almeno tre cose.

La prima: che per un produttore di contenuti è essenziale avere una presenza- una presenza che conta - nel settore delle telecomunicazioni, e cioè nei canali di distribuzione (e probabilmente, se fosse stato lui a decidere, Vivendi non avrebbe ceduto Sfr, anche se questo ha consentito di eliminare il problema del debito e gonfiare la tesoreria).

La seconda: che in Europa ci sono troppi operatori tlc e prima o poi inizierà un processo di concentrazione a livello transnazionale (quello nazionale è già cominciato, con la progressiva riduzione tra quattro a tre provider); come ha detto l’amministratore delegato di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine, a margine della presentazione dei conti 2015, «la posizione che abbiamo preso in Telecom Italia ci mette in condizione di giocare un ruolo in vista di ogni possibile processo di consolidamento del settore»; perché quindi non iniziare a lavorare a uno scenario che veda nascere proprio in Italia, con le alleanze necessarie, uno dei protagonisti di questo futuro risiko?

La terza: sul mercato italiano ci sono enormi spazi di crescita per la pay tv; e Canal+ (che tra l’altro ha bisogno di rafforzarsi, viste le difficoltà che incontra sul proprio mercato interno) ha il know how necessario per favorire questa diffusione (certo grazie anche al probabile accordo con Berlusconi su Mediaset Premium).

Alla notizia delle dimissioni di Patuano, Vivendi ha reagito ieri con il solito, rituale «no comment». Ma nelle settimane scorse, con un'accelerazione negli ultimi giorni, erano via via emersi molti punti di disaccordo – effettivo o potenziale – tra Parigi (che di Telecom ha ormai il 24,9%, con quattro consiglieri e due rappresentanti nel comitato nomine) e il management italiano. Sul taglio dei costi (che secondo Vivendi deve assolutamente essere implementato, in dimensioni e tempi), sugli investimenti, forse anche sul Brasile. E d’altronde lo stesso de Puyfontaine aveva già parlato a fine gennaio di «un business model da reinventare».

Exit Patuano, quindi. In nome della discontinuità. Una decisione che, conoscendo Bolloré e la sua proverbiale attenzione al contesto politico, non può non aver avuto il via libera preventivo di Palazzo Chigi.