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Brexit, pronto il decreto Tria: soluzione ponte per 21 mesi

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rischio tilt dei mercati

Brexit, pronto il decreto Tria: soluzione ponte per 21 mesi

Alla vigilia del voto decisivo a Westminster sul piano Brexit del governo inglese che scontenta tutti, europeisti ed exiters, la via d’uscita della Gran Bretagna dalla Ue ha raggiunto l’apice del caos. A Londra si moltiplicano le ipotesi di piani B e rinvii in extremis, ma intanto a Roma al ministero dell’Economia si è lavorato alla soluzione d’emergenza per evitare il rischio-tilt dei mercati finanziari che si aprirebbe con il «no deal» e la trasformazione di Londra in città extra-Ue dal 29 marzo.

Un rischio che coinvolge con modalità diverse tutti i principali settori della finanza, e che quindi ha coinvolto Bankitalia, Consob, Ivass per le assicurazioni e Covip per i fondi pensione nel cantiere delle nuove regole destinate a stretto giro a prendere la forma ufficiale di un decreto legge se le attese negative sul voto inglese di martedì saranno confermate. Un antipasto, necessario anche in caso di Brexit soft, è entrato in manovra, con il comma (il 508) che ha messo al riparo dalla bufera il recepimento italiano della direttiva sui sistemi di pagamento e di regolamento titoli (Settlement Finality). Ma il grosso è pronto a intervenire ora per riparare alle conseguenze possibili del «no deal».

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Senza cambi di rotta in extremis, la data di uscita del Regno Unito dall’Unione è fissata per il 29 marzo. Ma il decreto arriverebbe prima, in pochi giorni. Perché l’incertezza è la prima nemica del mercato. E l’incognita Brexit rischia di moltiplicare gli effetti di una gelata dell’economia che già alimenta interrogativi sulla tenuta dei saldi di finanza pubblica senza correttivi in corsa. Per correre ai ripari, il decreto pronto per il consiglio dei ministri getta un ponte di 21 mesi, dalla fine di marzo al 31 dicembre 2020, con un pacchetto di regole che garantiscono l’operatività italiana di intermediari e imprese d’investimento con sede nel Regno Unito e degli operatori Uk che aderiscono ai mercati italiani di azioni e obbligazioni.

In pratica, si tratta di riprodurre lo scenario lento che si avrebbe a livello complessivo in caso di Brexit «morbida», con un pacchetto di regole che non hanno bisogno di una trattativa con Bruxelles perché accolgono le raccomandazioni di dicembre della commissione a dotarsi di norme nazionali per gestire la transizione. Una strada già battuta negli ultimi mesi da Paesi come Germania, Francia e Olanda per guadagnare il tempo necessario a ricostruire regole bilaterali per il mutuo riconoscimento con il Regno Unito extra-europeo.

Nella sostanza, significa evitare un blocco traumatico del mercato finanziario italiano nel quale gli operatori targati Uk partecipano a oltre il 90% delle transazioni all’ingrosso di obbligazioni (ma sono presenti anche in circa il 10% delle negoziazioni retail) e al 60% abbondante degli scambi di azioni a Piazza Affari. Transazioni che senza un paracadute potrebbero trovarsi senza regole dal 29 marzo se nessuno dei per ora fumosi «piani B» di cui si discute ora a Londra riuscisse a fermare le conseguenze del probabile voto negativo di martedì prossimo. L’ombrello si aprirebbe sull’attività delle 70 banche Uk che lavorano in Italia, come i 233 istituti di pagamento inglesi e i 100 emittenti di moneta elettronica attivi nel nostro Paese insieme alle 58 assicurazioni e i 21 fondi pensione gestiti da 15 operatori, con 9,7 miliardi in portafoglio che valgono circa il 12% dell’attivo netto destinato alle prestazioni nei fondi negoziali esistenti in Italia.

Uno dei capitoli più spinosi dell’hard Brexit coinvolge poi il mondo dei derivati. Il problema riguarda tutti i contratti firmati con controparti inglesi, che perdendo il passaporto europeo non sarebbero più in grado di seguire la vita di questi swap dopo il 29 marzo. Conseguenze e contromisure viaggiano su due livelli. I derivati standardizzati e regolati con controparti centrali rappresentano l’85% dei contratti firmati da banche e imprese italiane con intermediari inglesi, e saranno coperti dalle regole transitorie scritte a livello comunitario. L’altro 15%, cioè i contratti uncleared che non passano da una controparte centrale, ha invece bisogno di una normativa nazionale. E qui interverrebbe il decreto con una normativa transitoria in grado di tenere in piedi l’autorizzazione alla prestazione di servizi di investimento per l’intermediario del Regno Unito, indispensabile per garantire la continuità contrattuale.

L’obiettivo è evitare un ingestibile trasferimento dei derivati, su una linea analoga a quella seguita a livello comunitario dal Contingency Planper far proseguire le attività di clearing che hanno in Londra (con Lch in primis) la sede dominante. La commissione europea ha già dato il via libera alle clearing house londinesi per continuare a offrire i loro servizi nello spazio europeo fino al 29 marzo 2020, un anno dopo rispetto all’eventuale hard Brexit. E l’Esma, la Consob europea, ha già sui propri tavoli le richieste arrivate dagli operatori per poter operare anche dopo la fine dei 12 mesi extra riconosciuti da Bruxelles.

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