Doganieri e veterinari, ma anche ampliamento degli spazi vicino a porti e aeroporti per ispezionare le merci e potenziamento dell’informazione destinata alle imprese. Con l’ipotesi del no-deal divenuta ormai ben più che una lontana minaccia, sono sempre di più i Paesi europei che adottano piani di emergenza e misure per far fronte alla”hard Brexit”, un’uscita disordinata di Londra dall’Unione europea che, con la reintroduzione di confini e barriere commerciali, rischia di porre immediati problemi di carattere pratico. I più attivi e preoccupati sono naturalmente i Paesi più esposti dal punto di vista geografico o commerciale, come l’Irlanda, l’Olanda, il Belgio o la Francia. Ma i cosiddetti “contingency plans” si moltiplicano, arrivando a coinvolgere anche realtà apparentemente più lontane.
Francia
Tra i primi ad annunciare un piano di emergenza con tanto di investimenti, seppure per ora limitati, il governo francese. Al termine di una riunione interministeriale, il primo ministro Édouard Philippe ha presentato le prime misure per fronteggiare un’uscita disordinata di Londra, eventualità definita «sempre meno improbabile». Oltre a un pacchetto di misure legislative e giuridiche, il piano comprende 50 milioni di investimenti per adattare porti e aeroporti alla nuova realtà, potenziando dunque checkpoint, arterie stradali, parcheggi per camion e magazzini in località o punti chiave a ridosso della Manica, come Calais, Cherbourg, l’ingresso del Tunnel, Le Havre.
Come già stabilito dalla Legge finanziaria 2019, saranno inoltre assunte nelle prossime settimane 600 persone tra doganieri, veterinari e altre professioni necessarie a far fronte a un volume di traffico e di ispezioni ben più elevato di oggi, con il Regno Unito che è parte del mercato unico e ha standard fitosanitari analoghi a quelli dell’Unione europea.
La Direzione generale delle imprese francese, che opera sotto la supervisione del ministero dell’Economia, ha messo a disposizione delle aziende un vademecum per la Brexit, mentre l’Autorità doganale ha organizzato una serie di incontri informativi regionali.
Irlanda
Al centro del dibattito pre-Brexit per lo stallo su come evitare il ripristino di una frontiera “fisica” tra Repubblica di
Irlanda e Irlanda del Nord, è il Paese che rischia di perdere di più, innanzi tutto in termini economici, dal distacco di
Londra, tanto più se brusco. Non a caso Dublino ha pubblicato già lo scorso dicembre un “contingency plan”, un documento
di 130 pagine che identifica le misure da approvare per garantire, anche con una hard Brexit, la relazione più stretta possibile
con il Regno Unito in settori come la sicurezza, la sanità, l’istruzione, il turismo e il commercio. Questa settimana il governo
ha accorpato in un unico “Brexit Bill” 17 leggi da approvare entro fine febbraio se l’uscita di Londra senza accordo diventerà
ancora più concreta.
Dublino ha annunciato, già dall’estate scorsa, un potenziamento del personale addetto ai controlli in porti e aeroporti: circa un migliaio di persone tra doganieri, veterinari e funzionari addetti alle certificazioni. Il piano di emergenza si sofferma in particolare sul potenziamento dei trasporti diretti via mare tra Irlanda e Europa continentale, alternativa almeno parziale all’ampio volume di merci che oggi transitano attraverso il Regno Unito; si prevedono inevitabili ritardi e rallentamenti e si cominciano a immaginare le possibili contromisure. Tra queste, un ampliamento degli spazi destinati a parcheggio e controllo di merci e animali e un potenziamento delle infrastrutture nei porti di Dublino e Rosslare.
Il documento del governo rimane però vago sulla questione nevralgica: il ripristino dei controlli sulle merci al confine tra le due Irlande, un’eventualità che in questi mesi di negoziato si è cercato di scongiurare con il cosiddetto “backstop” (la clausola di salvaguardia) ma che rischia di riproporsi senza sconti il 30 marzo prossimo. L’unica questione su cui il testo si sofferma è la libertà di circolazione delle persone: anche in caso di no-deal, si precisa, Irlanda e Gran Bretagna rimarrebbero legate grazie alla Common Travel Area, pre-esistente alla comune appartenenza Ue, che garantisce ai cittadini di entrambi i Paesi il diritto di vivere, lavorare e viaggiare da un territorio all’altro.
Paesi Bassi
L’Olanda - “porta d’Europa” grazie al maggiore scalo portuale del continente, quello di Rotterdam, e legata al Regno Unito da solidi legami commerciali (la Gran Bretagna è il suo secondo partner) - è uno dei Paesi che si sono mossi con maggiore anticipo. Entro la fine del 2019 assumerà 928 doganieri in più, incrementando del 18% l’attuale organico di 5mila persone; 300 di questi saranno già operativi entro il 29 marzo, data della possibile hard Brexit. Anche l’Authority per la sicurezza alimentare assumerà 143 persone, perlopiù veterinari, due terzi dei quali entro fine marzo. Il potenziamento dello staff, concentrato appunto nel Porto di Rotterdam, è mirato soprattutto al traffico giornaliero di piante e prodotti freschi tra Paesi Bassi e Regno Unito.
Anche in Olanda il governo ha messo a disposizione delle imprese un portale che può fare da bussola alle aziende in base al loro modello di business e ai legami con il Regno Unito.
Belgio
Anche il Belgio si muove per far fronte al rischio concreto di un’uscita disordinata del Regno Unito, suo quarto partner commerciale a cui è fortemente legato tramite un altro importante scalo continentale, il Porto di Anversa. A preoccupare il governo è innanzi tutto la scarsa preparazione delle imprese che oggi hanno relazioni commerciali con il Regno Unito: «Solo una su cinque - ha dichiarato mercoledì il ministro delle Finanze - è pronta ad assolvere agli obblighi doganali»; la maggioranza è ad oggi sprovvista del codice Eori, indispensabile per il passaggio delle merci alla dogana. Il governo si sta dunque attivando per contattare le aziende e fornire loro il codice e ha promesso, al tempo stesso, stanziamenti mirati all’assunzione di altri doganieri: 141 dovrebbero essere operativi entro aprile.
Ma gli investimenti serviranno anche per controllare le coste e il Mare del Nord attraverso strumenti tecnologicamente avanzati come droni e sottomarini.
Anche in Belgio è stato attivato già da settembre uno strumento online, il cosiddetto Brexit Impact Scan, per aiutare le imprese a misurare il livello di preparazione alla Brexit; ne hanno già usufruito più di 5mila aziende , tre quarti delle quali nelle Fiandre (l’85% delle imprese che esportano dal Belgio alla Gran Bretagna è del resto fiammingo)
Gli altri
Con il peggioramento del quadro politico, quasi tutti i Paesi si stanno via via attivando: la Germania ha messo a budget l’assunzione di altri 900 doganieri, come pure, per quanto con numeri meno significativi, Danimarca, Finlandia e Lettonia; la Spagna si prepara a varare per decreto piani di emergenza entro febbraio ; il Portogallo renderà disponibili 50 milioni per prestiti alle imprese penalizzate da Brexit.
In Italia il governo ha pubblicato prima di Natale un’informativa su come si sta preparando alla Brexit, anche in caso di no-deal. Come si legge sul sito della Presidenza del Consiglio dei ministri, sono stati avviati preparativi «per garantire, anche con misure legislative, la tutela dei diritti dei cittadini italiani che vivono nel Regno Unito e dei cittadini britannici che vivono in Italia, la tutela della stabilità finanziaria e della continuità operativa dei mercati e dei settori bancario, finanziario e assicurativo (...), la promozione di un’adeguata preparazione delle imprese e la gestione di emergenze relative ad alcuni ambiti settoriali come, ad esempio, trasporti, dogane, sanità, agricoltura, ricerca, istruzione e altri settori in cui dovessero essere necessari interventi».
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