New York - “Cerco, oggi come ieri, di scoprire realtà vinicole interessanti e di portarle negli Stati Uniti”. Così, con semplicità, negli uffici di Manhattan dell'importatore italiano di vini Vias il suo “patron” Fabrizio Pedrolli spiega la missione che l'ha guidato per quasi quarant'anni. Una missione non semplice per una società di nicchia - alcuni milioni di bottiglie l'anno esportate verso le cantine di oltre 16.000 ristoranti ed enoteche americane - in un mondo spesso segnato da acquisizioni e concentrazioni.
Una lunga marcia di un gruppo di famiglia con il doppio passaporto, perchè la sede principale rimane a Trento, dove abitualmente risiede lo stesso Pedrolli. La sua storia diventa però oggi un esempio - e un efficace osservatorio - delle opportunità grandi e piccole create dalla diffusione dei vini della Penisola oltreoceano.
Il successo del vino italiano negli Usa
Qualche dato, in occasione della fiera Vinitaly di Verona che esporrà i meriti globali del business del vino italiano, è d'obbligo per dare la misura delle fortune conquistate dall'elisir
di Bacco tra le stelle e le strisce. Il mercato statunitense del vino è reduce da un'era di forte crescita: Silicon Valley
Bank in un rapporto ormai annuale sottolinea come dal 1994 abbia conosciuto il più significativo boom nella sua storia. In
valore è arrivato a 62 miliardi di dollari l'anno e rappresenta una quota del 17% delle vendite di alcolici. In casse di vino da tavola, 290 milioni l'anno. E se gran parte
è tuttora di provenienza domestica, 221 milioni, per il resto in testa c'è l'Italia, con il 30% dell'import. Solo alle spalle
spuntano nazioni quali Francia, Australia, Cile, Spagna, Nuova Zelanda e Argentina.
Triplicata la sete di vino, raddoppiata la sede a New York
Pedrolli sottolinea come in tre o quattro decenni la sete di vino sia di fatto triplicata: i consumi erano di 4 litri a persona
su 250 milioni di abitanti, sono arrivati a 11 litri su 300 milioni. Nella categoria dello sparkling, nel vino frizzante, i volumi viaggiano a 20 milioni di casse, stabili attorno al 6,4% dei
consumi totali. Per metà di produzione locale, ma nell'altra metà, quella importata, è ancora una volta l'Italia che domina con il 55% e volumi in crescita grazie al boom del Prosecco - nonostante meno bene facciano prodotti più sofisticati in faticosa
concorrenza con lo status dello champagne francese.
Vias, in omaggio alle crescenti opportunità, ha appena raddoppiato la sua sede a Manhattan, sulla Sesta Avenue a Midtown,
traslocando in locali che occupano 1.100 metri quadrati; ha ormai 60 dipendenti tra i quali nuovi esperti di brand management.
“Quindi sono ottimista”, commenta Pedrolli. La distribuzione è diretta a New York e New Jersey, piazze considerate strategiche.
Altrove ricorre a partner che però sostiene, “facendo anche un po' di cultura”.
La strategia: una scelta accurata per un prodotto di livello medio-alto
La società rivendica una caratteristica a cui tiene: “Mi muovo nel settore vinicolo specialistico, con una rappresentanza
di livello medio/alto e attenzione al rapporto qualità/prezzo”, spiega Pedrolli. L'avversario dichiarato: una commercializzazione
eccessiva, “che bussa sempre alle porte” e mette in discussione “la propria identità”. Pedrolli tuttora seleziona e controlla
con un enotecnico tutte le partite di vini destinate oltreoceano presso la sede di Trento. E durante la scorsa Assemblea generale
dell'Onu è soddisfatto di poter dire che alcune “sue” bottiglie sono finite in tavola a eventi internazionali sponsorizzati
dall'Italia. Con quest'identità vuole tener fede alla sua nicchia. In un mercato, come accennato, altrimenti dominato - al
73% - da una decina di colossi della distribuzione. E dominio è anche la parola d'ordine quando si tratta dei marchi di prodotto:
27 brands hanno il 46% del mercato. Per rimanere sull'Italia, cinque cantine - Cavit, Stella Rossa, Cantine Riunite, Mezzacorona
e Ruffino - contano per il 45% dei vini importati.
La sua strategia, Pedrolli, la riassume diversamente: con la valorizzazione di radici locali, dei vitigni autoctoni, dei tanti
“terroir” descritti da esperti e filosofi del vino che possono fare la differenza. “Siamo orientati su una specializzazione
in tutto il territorio italiano, invece dei cinque o sei vitigni che girano per il mondo. Dagli inizi classici, con Piemonte
e Toscana, oggi copriamo l'intero paese, con 70 cantine, spesso sei o sette per regione”. Vias lavora a stretto contatto con
produttori di diverse dimensioni per individuare o lanciare vini che crede abbiano potenziale. E rimane legata a doppio filo
alla grande varietà della produzione italiana, con vini pluridecorati come più “di servizio”. Anche se non ha disdegnato di
introdurre una linea di vini non nostrani nella regione newyorchese.
Un sommelier alla conquista del West
Questa passione per il vino è antica per Pedrolli. “Vengo dal mondo dei sommelier, ho avuto forse una delle prime cento tessere
italiane dell'organizzazione nel 1969”. Divenne il primo italiano a presiedere l'Associazione Internazionale dei sommelier,
allora dominata dai francesi. L'avventura americana, racconta, cominciò nel 1983 e ha il sapore dei sogni e del caso che spesso
colorano scelte ambiziose: il trampolino fu l'amicizia con il proprietario d'una delle principali enoteche di New York, Louis
Iacucci di Goldstar, che introdusse nel Paese vini quali il Sassicaia. “Avevamo formato una società con 200.000 dollari di
fatturato. E io continuai dopo la sua scomparsa nel 1988, gli uffici erano a Long Island prima di compiere il salto a Manhattan,
pur se parliamo sempre di milioni e non dei miliardi di dollari di giganteschi distributori”.
Dal cinema alle case: come sono cambiate le abitudini di consumo
Agli albori, trentacinque anni or sono, “la prima degustazione fu in birreria. Mi appoggiai su realtà della ristorazione italo-americana”.
Seguì una crescita “aritmetica, non esponenziale”. Alla quale hanno contribuito i mutamenti delle abitudini: “Fa testo il
cinema. Nei film si vedevano un tempo solo cocktail, gin e vodka, whiskey e birra. Di recente in opere di levatura si beve
vino. La bottiglia di vino è entrata nell'immaginario collettivo”. Ancora: “Una volta i vini cercati erano più alcolici,
dolci e “grossi”, come erano grezzi i piatti. Poi è arrivata una cucina italiana più autentica. E ancora la commistione,
fusione e globalizzazione delle cucine, il mangiare più leggero e attento alla salute. “Invece di vini pesanti, legnosi, chiede
vini più consoni, più puliti, eleganti. E' oggi difficile che veder servito un vino ossidato”, rovinato.
Pedrolli, a 79 anni, conserva quella passione di ieri, del vino che sa invecchiare. “Qualcuno ha anche tentato di comprarci,
qualche grande distributore. Ma non ho mai ceduto”. Piuttosto è impegnato a cercare di organizzare il passaggio generazionale delle redini di un'azienda di famiglia ma “transatlantica”, con il nipote Federico Zanella che è adesso supplier manager a New York dal 2017. “Se viaggio meno in Italia, prima facevo
45.000 chilometri l'anno, mi piace sempre visitare la mia seconda città, New York”.
La rivalità con cannabis legalizzata e birra
Negli Stati Uniti, di sicuro, emergono continue sfide. Le sfide comprendono il passaggio dai baby boomers a consumatori più
giovani forse ancora meno propensi al vino per una varietà di ragioni, da inedita concorrenza - compresa la cannabis legalizzata,
stando a qualche analista - fino alla minor sicurezza economica e di reddito. Pedrolli però vede soprattutto opportunità.
“Il vino viene oggi consumato una una fascia di età dai 20 ai 40 anni mentre prima era appannaggio degli ultra-cinquantenni. C'è più focus sul rapporto qualità-prezzo, più curiosità e voglia di
informarsi facilitata dalla tecnologia”. Anche se la tecnologia, avverte, ha risvolti problematici: online possono essere
diffusi disinformazione e vini “falsi”. Parlando delle evoluzioni più promettenti, intravede quella dei vini bianchi. “Una
volta il vino per definizione era rosso. E siamo tuttora ad un 90% di rossi e 10% di bianchi, tolti fenomeni quali Pinot grigio
e Prosecco. Ma si affermano vini bianchi più interessanti, floreali, fruttati, tropicali, con alta acidità. E per l'Italia
ci sono vantaggi sempre grazie alla varietà, a vitigni autoctoni”. Una rivalità la vede nella birra, “uscita dalla produzione
di massa e che tende a sua volta a rispecchiare il territorio e avere aspetti artigianali”. Spera però che “diventi un punto
di partenza per arrivare al vino”. Il quale, assicura, rimane “qualcosa di molto più complesso”.
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