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Norme e Tributi Approfondimenti

L'accomandante non fallisce

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2010 alle ore 08:01.


Il socio accomandante non è soggetto a fallimento anche se effettua indebiti prelievi di denaro dalle casse sociali. È, infatti, un comportamento illecito ma non può essere considerato un'ingerenza nella gestione della società "punibile" con la responsabilità illimitata. A precisarlo la sezione I civile della Cassazione nella sentenza 13468/2010 che ha chiarito limiti e portata dell'articolo 2320 del Codice civile.
La sentenza è stata originata dalla dichiarazione di fallimento pronunciata nei confronti di una donna, socia accomandante di una società fallita, di cui il marito era accomandatario. Secondo i giudici di merito, la donna aveva violato l'articolo 2320 del Codice civile ingerendosi nell'amministrazione della società cui aveva sistematicamente prestato garanzie e sostegno finanziario, anche con la sua impresa individuale, effettuando peraltro prelievi di denaro dalle casse sociali tramite un fondo prelevamento soci.
L'opposizione al fallimento presentata dalla donna è stata respinta dal tribunale e accolta in Corte d'appello. Secondo i giudici di secondo grado i fatti posti a fondamento erano certamente indicativi di una partecipazione della donna alla società ma non valevano a giustificare la dichiarazione di decadenza dal beneficio della limitazione della responsabilità propria del socio accomandante, perché non erano manifestazione di un'attività di gestione degli affari sociali.
Né questa sua attività poteva essere valutata come indicativa dell'esistenza di una società irregolare tra lei e il marito che ne avrebbe giustificato comunque il fallimento. Infatti, hanno spiegato i giudici di merito, la legge preclude la possibilità di dichiarare il fallimento per presupposti diversi da quelli contestati preventivamente al debitore.
Contro questa decisione il fallimento ha presentato ricorso in Cassazione. Le tesi prospettate dal ricorrente non hanno però convinto la Suprema corte secondo la quale l'esistenza del rapporto sociale, anche ai fini della dichiarazione di fallimento, può risultare da indici rivelatori quali le fideiussioni e i finanziamenti in favore dell'imprenditore in difficoltà.Tuttavia, nel caso in esame non è in discussione la qualità di socia della signora, ma il suo presunto ruolo di amministrazione e gestione della società fallita.

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Tags Correlati: Corte d'Appello | Corte di Cassazione | Società in accomandita semplice

 

Inoltre anche la qualità di socio occulto di una Sas non è idonea a far presumere la qualità di accomandatario, dal momento che è necessario accertare di volta in volta la posizione assunta in concreto dal socio, il quale assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali solo ove contravvenga al divieto di compiere atti «di gestione aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull'amministrazione della società, non già di atti di mero ordine o esecutivi» o di trattare o concludere affari in nome della società. Quindi, per aversi ingerenza dell'accomandante nell'amministrazione, non è sufficiente il compimento di atti esecutivi quali la prestazione di garanzie e il prelievo di fondi dalle casse sociali. Infatti, quest'ultimo in particolare, ha concluso la Cassazione, «quand'anche indebito o addirittura illecito, non costituisce certamente un atto di gestione della società».
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norme/documenti
Il testo della sentenza
Il principio

- Cassazione, sezione I civile, sentenza 13468/10

Non v'è dubbio, infatti, che «l'esistenza del rapporto sociale, anche al fine della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile a norma della legge fallimentare, articolo 147, può risultare da indici rivelatori quali le fideiussioni e i finanziamenti in favore dell'imprenditore, allorquando essi – ancorché riguardanti il solo momento esecutivo dei rapporti obbligatori della società – siano, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, ricollegabili a una costante opera di sostegno dell'attività di impresa, qualificabile come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali» (...).
Tuttavia, come hanno ben evidenziato i giudici d'appello, non è qui in discussione la qualità di socia di (...), è in discussione il suo presunto ruolo di amministrazione e gestione della società. E secondo la giurisprudenza di questa corte, la stessa «situazione di socio occulto di una società in accomandita semplice – la quale è caratterizzata dall'esistenza di due categorie di soci, che si diversificano a seconda del livello di responsabilità (illimitata per gli accomandatari e limitata alla quota conferita per gli accomandanti, ai sensi dell'articolo 2312 del Codice civile) – non è idonea a far presumere la qualità di accomandatario, essendo necessario, a tal fine, accertare di volta in volta la posizione in concreto assunta da detto socio, il quale, di conseguenza, assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell'articolo 2320 del Codice civile, solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione (intesi questi ultimi quali atti di gestione, aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull'amministrazione della società, non già di atti di mero ordine o esecutivi) o di trattare o concludere affari in nome della società» (Cassazione, sezione I, 25 luglio 1996, n. 6725, m. 498754).

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