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Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2010 alle ore 18:02.
Retromarcia della Cassazione sulla confisca in caso di prescrizione del reato: il giudice non solo ha la possibilità di disporla, ma ha anche poteri di accertamento sui fatti presupposto, ai fini di allargare la portata del provvedimento. A disattendere l'orientamento fissato non più tardi di due anni fa dalle stesse Sezioni unite (38834/08) è la seconda penale con la sentenza 32723/10, depositata ieri, che peraltro annulla, con rinvio, una confisca della Corte d'appello di Napoli su reato prescritto.
La questione verte ancora una volta sull'interpretazione letterale dell'articolo 240, secondo comma del codice penale, e cioè se l'espressione «è sempre ordinata la confisca», che precede un elenco di casi, sia da considerare slegata dal primo comma, che pone come condizione la condanna. Mentre le sezioni unite, due anni fa, avevano stabilito che la norma deve essere letta unitariamente (quindi: confisca solo con la condanna), limitandosi a «invitare» il legislatore a «riflettere per evitare l'arricchimento antigiuridico e immorale», oggi un altro collegio prende le distanze da quella lettura per ripristinare – o meglio, non svuotare del tutto – la funzione di prevenzione generale dell'istituto. In sostanza i giudici, argomentando su una confisca di tre immobili a un usuraio prescritto in Appello (ma già condannato definitivo e con altre 7 confische a carico) spiegano che nella lettura del codice bisogna dar rilievo «alla permanenza di un rapporto di derivazione dei beni con il reato contestato», non fosse altro che per evitare la «reimmissione nel circuito economico» di beni di origine malavitosa. Inoltre, nel caso dell'usuraio napoletano su cui la Seconda costruisce la nuova interpretazione, si tratta di confisca alla criminalità mafiosa (articolo 12 quinquies della legge 356/1992): è cioè una confisca speciale – e una norma in rapporto di specialità rispetto al codice – che «accomuna la funzione repressiva di ogni misura di sicurezza patrimoniale» con quella di evitare il proliferare di ricchezza ingiustificata (in questo caso attraverso l'intestazione fittizia di beni). Con questa particolare confisca, quindi, il legislatore prevede una «presunzione di illecita accumulazione, senza distinguere se detti beni siano o meno derivanti dal reato per il quale è stata inflitta la condanna». Pertanto, qui il nesso di pertinenzialità tra i proventi e l'attività criminale è più ampio rispetto a quello standardizzato nelle norme generali tra condannato e provento del reato.