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Norme e Tributi Diritto

Per gli avvocati minimi inderogabili fino al decreto Bersani

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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2010 alle ore 07:51.

Prima che il decreto Bersani ne abolisse l'obbligatorietà, i minimi tariffari per gli avvocati valevano anche per la cosiddetta attività stragiudiziale. Ovvero per la consulenza e per tutta l'attività diversa da quella strettamente di difesa in giudizio, anche quando è svolta in forma routinaria e standardizzata o all'interno di un pacchetto continuativo di incarichi.


Lo ha chiarito la sezione lavoro della Cassazione che, con la sentenza 20269 di ieri, ha respinto il ricorso di due aziende che avevano pagato a uno studio professionale un onorario inferiore ai minimi tariffari, in virtù di una convenzione tra le parti stipulata prima della riforma Bersani del 2006. Per questo, la Corte d'Appello di Napoli, su istanza dello studio professionale, aveva rigettato le argomentazioni delle società, condannandole a versare la differenza.
Condividendo la tesi della Corte partenopea la sezione lavoro della Corte di cassazione ha ribadito una serie di principi secondo cui, in materia di onorari e diritti di avvocato e procuratore, la disposizione dell'articolo 24 della legge 794 del 1942 - che sanciva l'inderogabilità delle tariffe minime per le prestazioni giudiziali – va interpretata «nel senso dell'estensione di questo principio anche alle prestazioni stragiudiziali alla stregua sia della ratio legis, (collegata ad esigenze di tutela del decoro della professione forense che si prospettano con identico rilievo nei riguardi di entrambi i tipi di prestazione), sia del criterio di adeguamento al principio costituzionale di uguaglianza, sia di ragioni sistematiche volte a tutelare il lavoratore anche nelle prestazioni d'opera intellettuale». Né, ha proseguito la suprema Corte, il principio può soffrire eccezioni in considerazione della natura semplice o ripetitiva di alcuni affari, «poiché il carattere routinario» può, se mai, «incidere sulla determinazione dei compensi tra il minimo e il massimo delle tariffe, ma non anche giustificarne la totale disapplicazione».


I giudici, naturalmente, ricordano che l'articolo 2 del Dl 223/2006 (convertito con legge 248/2006, il primo decreto "lenzuolata" Bersani) ha abrogato la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime «dalla data di entrata in vigore» della legge stessa. Dunque, non può valere nella causa esaminata, che si occupa di fatti e accordi verificatisi prima (nel 1988). Ma il collegio si lascia andare anche ad alcune osservazioni proprie sul senso delle tariffe e della loro funzione sociale, che se non influisce sul quadro normativo generale, esprime comunque un indirizzo preciso.

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Tags Correlati: Corte d'Appello | Corte di Cassazione | Normativa sulle libere professioni

 


«Pur non essendo una garanzia della qualità dei servizi – scrivono – non si può di certo escludere – ed anzi si deve affermare – che nel contesto italiano, caratterizzato da una elevata presenza di avvocati, le tariffe che fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduce nell'offerta di prestazioni "al ribasso", tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio». Insomma – sembra dire il collegio – i minimi sono stati abrogati, ma in un contesto di iperinflazione del numero degli avvocati, un limite minimo al ribasso della prestazione eviterebbe una concorrenza aggressiva al maggior ribasso che, in alcuni casi, sfiora il "dumping". Naturalmente, precisa la Cassazione, l'inderogabilità dei minimi avrebbe potuto non applicarsi se l'avvocato avesse rinunciato, in tutto o in parte, alle competenze professionali. Ovvero, il legale poteva prestare la propria opera gratuitamente, per ragioni di amicizia, parentela o semplice convenienza (ma non predeterminare il compenso, cosa oggi, invece, possibile). Per rinunciare all'onorario, però, avrebbe dovuto esserne consapevole, mentre le lettere in cui lo stesso legale da atto della definizione della pratica «in base al forfait illegittimamente concordato» raccontano un'altra storia.


Infine, la Corte ricorda che, ai sensi dell'articolo 4 del Dm del 5 novembre 1994, in caso di difformità tra la prestazione del legale e l'onorario, una delle parti interessate (quindi anche il cliente) può richiedere il parere del competente Consiglio dell'Ordine. Cosa che non risulta avvenuta. Quindi, non vi è nessun motivo per non liquidare all'avvocato la differenza d'onorario residua.

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