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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2010 alle ore 08:31.
È la nuova comunicazione, bellezza. E anche la Cassazione ne deve prendere atto. Tanto da potere fare spalancare le porte del carcere per chi, agli arresti domiciliari, si diletta con Facebook non potendo mettere il naso fuori di casa. A mettere nuovi paletti, prendendo atto, casomai ce ne fosse bisogno, della rilevanza anche penale dei social network, è la sentenza n. 37151 depositata ieri. La pronuncia si preoccupa di aggiornare quel divieto di comunicazione con «persone diverse dai familiari conviventi» previsto dal Codice di procedura penale.
Una prescrizione che, sottolineano i giudici, deve essere oggetto di un'interpretazione estensiva, prevedendo un divieto di parlare non solo con persone non della famiglia e non conviventi, ma anche, pur in assenza di disposizioni specifiche, di comunicare attraverso internet.
Ma non tutto internet, o non tutti gli utilizzi di internet finiscono sotto la tagliola dei giudici. A fare la differenza è infatti il diverso impiego della rete. Per la Cassazione, «l'uso di internet non può essere vietato tout court ove non si risolva in una comunicazione con terzi comunque attuata, ma abbia solamente funzione conoscitiva o di ricerca, senza entrare in contatto, tramite il web, con altre persone».
I giudici ricordano che la tecnologia moderna permette oggi un agevole scambio di informazioni anche con mezzi diversi dalla parola, tramite il web e anche questa trasmissione di informazioni deve essere compresa nel concetto di «comunicazione», pur non essendo vietata dalla legge. Il divieto colpisce allora non solo la comunicazione diretta, ma anche tanti altri strumenti, che vanno dai più rudimentali "pizzini", ai gesti, alle comunicazioni televisve anche mediate (impossibile su questo punto non avvertire un'eco delle polemiche sorte dopo la scoperta che detenuti al 41 bis erano coinvolti in messaggi diffusi in note trasmissioni televisive), per arrivare sino ai messaggi online.
Attenzione, però, come detto non si può parlare di una sorta di presunzione, impedendo comunque l'utilizzo della rete. Tocca alla pubblica accusa, spiega la sentenza, dimostrare che lo strumento informatico è stato utilizzato per comunicare con l'esterno.
Nel caso approdato sino all'esame della Cassazione