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Norme e Tributi Diritto

Sui danni da amianto la scienza guida il giudice. Il Cda risponde dell'assenza di misure di protezione

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2010 alle ore 08:48.

Della mancata predisposizione di misure di protezione dall'amianto risponde l'intero Cda. Tuttavia, nel provare la responsabilità il giudice non ha discrezionalità ed è tenuto a motivare la scelta tra tesi scientifiche contrastanti. Questi i principi su cui la Cassazione si è basata nella sentenza a carico dei vertici della Montefibre, assolti in primo grado e condannati dalla Corte d'appello di Torino per omicidio colposo per la morte di 11 operai esposti all'amianto nello stabilimento di Verbania.

La Suprema corte, pur confermando la responsabilità dell'intero board per le carenti misure di sicurezza, limita la condanna dei manager ai tre decessi avvenuti per fibrosi polmonare, mentre ritiene non provato il nesso causale tra le inadempienze e l'evento mortale per gli otto dipendenti morti di tumore alla pleura.

Nel primo caso, infatti, la Cassazione – sentenza 38991 bis – ha considerato esaurienti le motivazioni con le quali i giudici di merito hanno individuato l'esistenza di un nesso causale tra la malattia degenerativa e la negligenza nel mettere in atto le misure (imposte dall'articolo 21 del Dpr 303/56), che avrebbero impedito il diffondersi delle polveri nel luogo di lavoro. Nel secondo caso sarebbe mancata la prova della relazione causa-effetto. Secondo il Supremo collegio il giudice di appello ha usato una discrezionalità che non gli è consentita scegliendo tra due tesi scientifiche contrastanti senza ancorare la sua "preferenza" agli elementi tecnici raccolti.

La Cassazione ha dunque giudicato immune da vizi il percorso della Corte di secondo grado solo nella parte in cui ha stabilito le responsabilità degli amministratori della società del gruppo Montedison nell'insorgenza delle malattie degenerative che hanno portato alla morte di tre operai. L'uso massiccio di amianto rendeva, infatti, doverosa l'adozione di accortezze. Invece, i responsabili della società hanno messo in atto un processo di ammodernamento talmente lento da far registrare una significativa presenza di amianto all'interno dello stabilimento di Verbania ancora nel 2002. Omissioni che la Corte considera ancora più gravi in relazione ai rischi già conosciuti sull'insorgenza delle fibrosi polmonari.

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Tags Correlati: Corte d'Appello | Corte di Cassazione | Montedison | Struttura delle società | Torino | Verbania

 

Patologie, spesso con conseguenze letale - afferma la Cassazione - «firmate dall'amianto» - la cui insorgenza «prevedibile» poteva essere, se non scongiurata, resa meno probabile dalle dovute cautele che il Cda e il direttore dello stabilimento, in quanto titolari di una posizione di garanzia, erano tenuti ad adottare. Questo anche in assenza di dati certi sull'epoca di maturazione della malattia perché - come affermato in precedenti sentenze - la negligenza «riduce i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure li accelera nel caso di affezioni insorte successivamente».

La Cassazione ha ribadito il diritto delle associazioni che rappresentano i lavoratori a costituirsi parte civile per la richiesta dei danni morali e materiali, non solo quando è in gioco un bene su cui vantare un diritto patrimoniale ma anche nell'ipotesi in cui venga leso un diritto soggettivo, come nel caso dei sindacati la cui legittimazione storica è proprio nella tutela degli interessi dei lavoratori.

La Cassazione non mette comunque la parola fine alla vicenda della Montefibre ripassando la palla alla Corte d'appello di Torino, che dovrà decidere sulla responsabilità dei vertici anche per la morte degli altri otto operai, tenendo presente che la funzione del giudice sarà quella di valutare le diverse opinioni degli esperti basando la sua scelta sui «concreti elementi scientifici raccolti». Evitando - come secondo il collegio è accaduto - un'elaborazione della legge scientifica invece che una sua utilizzazione.

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