Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2010 alle ore 08:10.
Finisce con la «censura» definitiva della Cassazione l'esperienza di Alt (Assistenza legale per tutti), l'iniziativa di due avvocati milanesi – uno consigliere dell'ordine – che nel 2007 scesero letteralmente in strada per avvicinarsi alla clientela, sfruttando le liberalizzazioni pubblicitarie targate Bersani.
Secondo le Sezioni unite (sentenza 23287/10, depositata ieri), la sanzione inflitta dal consiglio di Brescia nei confronti della consigliera milanese, ribadita poi dal Cnf, è del tutto congrua e legittima, per aver utilizzato un acronimo (ALT) «suggestivo», volto a catturare clientela sfruttando un riflesso «emotivo» irrazionale, ed equivocando anche sul messaggio «prima consulenza gratuita» – in realtà un «generico inquadramento del problema».
La corte ha invece cassato con rinvio la decisione nei confronti del collega non consigliere dell'ordine, perché il procedimento a suo carico era stato erroneamente attratto – per connessione soggettiva – nella competenza del consiglio bresciano. Proprio su questo punto le sezioni unite hanno impegnato una lunga parte della motivazione, escludendo che al procedimento disciplinare forense possano essere applicati istituti della procedura penale – come la connessione soggettiva, appunto – quando non espressamente previsti, come in questo caso.
Nessuna ombra, invece, sull'operato degli organi di autogiurisdizione dell'avvocatura, ma per la ragione assorbente che in materia di pubblicità la legge professionale del 1933 (articolo 38) «non contiene una specifica tipizzazione di ipotesi di illecito»: spetta quindi ai consigli dare contenuto alla formula normativa che prevede il procedimento disciplinare per «gli avvocati che si rendano colpevoli di abusi o di mancanze nell'esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale». Secondo la corte la ragione di una tale scelta legislativa, diffusa peraltro in diversi ordinamenti professionali, sta nella necessità di evitare che violazioni di doveri, anche gravi, possano sfuggire alla sanzione disciplinare. Il contraltare della formulazione "aperta" della norma di incolpazione, però, è la difficoltà di definire il perimetro di ciò che è lecito, ma soprattutto il fatto che arbitro della questione non può che essere il giudice della deontologia, cioè l'avvocatura stessa. E sulle scelte di merito operate dal consiglio territoriale, e poi dal Cnf, il controllo di legittimità della Cassazione non può diventare un momento sostitutivo, in cui la corte riformula o ridefinisce, secondo la propria sensibilità, le condotte già sanzionate dai colleghi avvocati.