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Questo articolo è stato pubblicato il 08 dicembre 2010 alle ore 16:13.
I cartelli stradali con il nome dell'azienda, le scritte sulle fiancate dei furgoncini, e anche le targhe sui cancelli dei palazzi dove ci sono studi professionali. Negli anni niente è sfuggito all'imposta sulla pubblicità, che i comuni fanno pagare a chiunque piazzi «forme di comunicazione visive o acustiche» per farsi conoscere da chi passa. L'ultima vittima nota è la bandiera italiana. Giovanni Caslini, titolare di un hotel su un grande viale di Desio, nei dintorni di Monza, ha fatto sapere di aver ritirato tutti tricolori e affini che sventolavano sull'albergo perché stufo di pagare tra i 30 e i 54 euro a bandiera.
A motivare il rigore dell'ufficio tributi non è un sussulto padano in salsa brianzola, anche se la presenza del Carroccio in maggioranza era forte prima delle dimissioni di gruppo e lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni della 'ndrangheta; le cartelle esattoriali non si sono concentrate sul tricolore, ma hanno bersagliato anche le bandiere ultra-localistiche del Palio degli zoccoli. «Non è una questione di soldi – racconta Caslini –. Il fatto è che mi sono sentito preso in giro, perché l'imposta si paga sulla superficie e mi hanno detto che le bandiere pagano doppio perché hanno due lati». Di stranezze, l'imposta sulla pubblicità è sempre stata prodiga.
Due anni fa a Bologna la giunta allora guidata da Sergio Cofferati trovò il modo sicuro per far arrabbiare 2.300 commercianti: «I menu dei ristoranti e i simboli della carta di credito – si sentirono dire dalla Gestor, la società che riscuoteva i tributi – sono pubblicità e devono pagare l'imposta». Ergo: multa e versamento degli arretrati fino al 2005. I bolognesi, gente di spirito, la chiamarono «delirium tax», e la definizione sembra azzeccata anche quando si leggono le dotte dispute giurisprudenziali che spesso sono arrivate fino in Cassazione.
Domanda: la targa «ditta tal dei tali», sulla porta del capannone, è pubblicità? «Certo!», ha assicurato il comune di Caserta, «ovvio», hanno ribadito i giudici tributari campani prima di essere fermati dalla Suprema corte nel luglio scorso con la stessa impostazione che ha salvato dalla tassa le targhe sui portoni degli studi professionali. Attenzione, però: se il cartello si allontana di qualche metro, e magari su un lato si allunga in una freccia, non c'è più Cassazione che tenga.