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Questo articolo è stato pubblicato il 10 gennaio 2011 alle ore 06:42.
Nell'attuale fase di congiuntura economica può accadere che qualche contribuente incappi in un reato fiscale. Il riferimento è ai reati relativi alla fase riscossiva delle imposte introdotti con le riforme del 2005-2006: omesso versamento di ritenute certificate, omesso versamento di Iva, indebite compensazioni (articoli 10-bis, ter e quater del Dlgs 74/2000).
Si può verificare, infatti, che i titolari di attività d'impresa, in situazioni di difficoltà economiche, preferiscano pagare i salari ai dipendenti rinviando a tempi migliori il versamento di ritenute e Iva o compensando un debito tributario con un credito discutibile. Per questi ultimi, trattandosi di reati a dolo generico, è sufficiente la consapevolezza del proprio comportamento, non essendo richiesta invece alcuna finalità di evasione. Appare, quindi, difficile sostenere difensivamente la tesi della mancanza di dolo.
D'altronde non è applicabile alcuna causa di non punibilità, essendo le stesse tassativamente descritte dal legislatore. Si pensi, ad esempio, allo «stato di necessità» (articolo 54 del Codice penale). In passato, con riferimento alla vecchia fattispecie di omesso o ritardato versamento delle ritenute (articolo 2 della legge 516/1982), la Cassazione ne aveva negato l'applicabilità in quanto tale scriminante richiede il «pericolo di un danno grave alla persona», mentre qui si tratta di pericolo per l'impresa. È prevedibile che la giurisprudenza seguirebbe lo stesso ragionamento con riferimento ai nuovi reati riscossivi.
Le prospettive assolutorie, in casi di questo genere, sono dunque assai limitate. Tuttavia va segnalato che qualche spiraglio di tipo, per così dire, «umanitario» si è aperto nella giurisprudenza tributaria delle Commissioni appunto nei casi di gravissima illiquidità delle imprese.
In alcune sentenze sulle sanzioni amministrative non penali, i giudici tributari hanno applicato la causa di non punibilità della «forza maggiore» (articolo 6 del Dlgs 472/1997), dandone un'interpretazione estensiva, certo suscettibile di osservazioni sul piano della pura qualificazione dogmatica. La scriminante in questione, infatti, richiede, per comune interpretazione, l'esistenza di una situazione di esclusione della riferibilità del comportamento alla coscienza e volontà del soggetto.