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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2011 alle ore 10:03.
MILANO - Nessuna tutela penale per il mobbing. A meno che non possa essere paragonato ai maltrattamenti in famiglia. Semmai spazio per un'azione in sede civile per ottenere il risarcimento del danno. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 685 della Sesta sezione penale depositata ieri che ha affrontato e archiviato, a causa dell'assenza di norme antimobbing, la denuncia di una operaia dello stabilimento Fiat Mirafiori, esonerata da alcune prestazioni per motivi di salute, che aveva accusato il caporeparto di sottoporla a «trattamenti umilianti e vessatori, imponendole ritmi di lavoro non sostenibili, rivolgendole frasi offensive e minacciando di trasferirla se non avesse eseguito gli ordini».
La Cassazione osserva che il mobbing, cioè le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione, possono integrare il reato di maltrattamenti in famiglia solo quando il rapporto tra datore di lavoro e dipendente o di preposto e lavoratore sottoposto al suo controllo è di natura parafamiliare. Deve cioè essere caratterizzato «da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia».
Una situazione che, però, non è paragonabile a quella contestata all'imputato che è, sia pure in astratto, riconducibile alla fattispecie di mobbing. Una fattispecie però del tutto priva di un'autonoma rilevanza penale nel nostro codice, malgrado, osserva con un certo disappunto la Cassazione, una delibera del Consiglio d'Europa del 2000 che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa omogenea.
Semaforo rosso, così, per la via penale, mentre è invece senz'altro percorribile la strada del procedimento civile visto che il mobbing può costituire un titolo per ottenere il risarcimento del danno eventualmente sofferto dal lavoratore. La responsabilità del datore di lavoro, chiarisce la corte, ha natura contrattuale sulla base di quanto stabilito dall'articolo 2087 del Codice civile, norma questa in stretto collegamento con quelle costituzionali poste a presidio del diritto alla salute e del rispetto della sicurezza.