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Norme e Tributi Fisco

Il fisco paga per l'atto annullato

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2011 alle ore 08:15.


Nel processo tributario l'amministrazione deve essere condannata a pagare le spese processuali anche nei casi in cui gli atti di accertamento vengano annullati in via di autotutela. Lo ha precisato la Commissione tributaria regionale di Roma (sezione XXIX, sentenza 43/2011).
Per i giudici capitolini è giusto che il Fisco paghi le spese al contribuente quando l'annullamento dell'atto di accertamento venga adottato nel corso del processo. La Corte costituzionale (sentenza 274/05) ha dichiarato incostituzionale l'articolo 46, comma 3 del decreto legislativo 546/92, che prevedeva la compensazione delle spese in caso di estinzione del giudizio per cessata materia del contendere. Considerato che l'agenzia delle Entrate ha annullato in autotutela l'atto emanato in seguito all'impugnazione proposta dalla società ricorrente, alla quale era stata notificato l'accertamento nonostante fosse stata cancellata dal registro delle imprese, secondo la Commissione è doveroso condannarla al «rimborso delle spese processuali».
Se l'atto emanato dall'amministrazione finanziaria viene impugnato innanzi al giudice tributario, la pronuncia negativa dovrebbe avere come effetto il pagamento delle spese giudiziali. Come rilevato nella motivazione della sentenza, prima dell'intervento della Consulta l'erario aveva la possibilità di prevenire la soccombenza in giudizio, anticipando la pronuncia del giudice attraverso l'annullamento dell'atto ritenuto illegittimo. E la disposizione contrastava con l'altro principio processuale che stabilisce che la parte soccombente deve essere condannata a rimborsare le spese del giudizio, salvo casi eccezionali che richiedono una giustificazione. Le amministrazioni pubbliche si trovavano in una posizione di privilegio rispetto al contribuente, il quale nelle ipotesi in cui invece rinunci al ricorso deve pagare le spese del giudizio estinto, in base all'articolo 44 della normativa processuale.
Per l'esercizio del potere di autotutela non serve che il contribuente presenti un'istanza: l'amministrazione può adottare il provvedimento di riesame d'ufficio. Il potere non viene meno se la controversia è pendente innanzi al giudice tributario, né se è intervenuta una pronuncia dello stesso giudice, né se l'atto è divenuto definitivo per mancata impugnazione entro il termine di decadenza. Solo il giudicato sostanziale (vale a dire la sentenza non più impugnabile con i mezzi ordinari che non abbia pronunciato soltanto su questioni di rito) ne impedisce l'esercizio.

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Tags Correlati: Agenzia Entrate | Corte Costituzionale | Corte di Cassazione | Fisco | Pubblica Amministrazione | Roma

 

Il Fisco rileva un vizio o un errore nella pretesa tributaria: se la annulla deve pagare le spese di lite; se non adotta il provvedimento di autotutela può essere condannato a risarcire i danni al contribuente (solo se l'atto non sia divenuto definitivo). Il Fisco è tra due fuochi.
Secondo la Cassazione (sentenza 698/2010) gli interessati possono rivolgersi al giudice ordinario per ottenere il risarcimento dei danni, materiali ed esistenziali, subiti in seguito al mancato o ritardato annullamento di un atto impositivo illegittimo. È stato riconosciuto "ingiusto" il danno arrecato al contribuente per non avere l'amministrazione esercitato l'autotutela, nonostante si tratti di un'attività discrezionale. È da escludere che possa essere proposta l'azione innanzi al giudice civile anche quando la pretesa impositiva sia divenuta definitiva.
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Le istruzioni
L'autotutela rimedia agli errori del fisco. Sul Sole 24 Ore di ieri tutto quello che il contribuente deve sapere per agire in autotutela contro un atto di accertamento sbagliato. La regola è: il provvedimento è sempre annullabile e chi ha pagato ha diritto al rimborso. L'amministrazione rimedia, dunque, a un proprio errore

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