Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2012 alle ore 06:43.

My24


La violazione del termine di durata irragionevole di un processo comporta che debba essere disposto, in favore di tutte le parti in causa, indipendentemente dal fatto che siano risultate vittoriose o meno, il diritto all'equo indennizzo previsto dalla legge 89/2001. Persino la palese infondatezza di una domanda giudiziale, e il conseguente, scontato, esito sfavorevole del processo, non rappresentano circostanze tali da escludere che i ricorrenti possano subire un patema indennizzabile, ove il termine per la durata ragionevole del processo sia abbondantemente decorso.
Lo ha deciso la Cassazione (sentenza 35/2012), in accoglimento delle doglianze avanzate da un gruppo di ricorrenti i quali, instaurato 13 anni addietro un giudizio innanzi al Tar senza ottenere una definizione, avevano chiesto l'equo indennizzo, vedendosi rigettare la richiesta dai giudici di merito. Nella fattispecie, la Corte territoriale aveva ritenuto che la palese infondatezza della domanda al Tar escludesse che l'attesa della definizione della controversia potesse aver procurato loro un patema d'animo indennizzabile. Di qui il ricorso in Cassazione, ritenuto fondato dai giudici di legittimità. Precedenti pronunce hanno infatti chiarito che «il diritto all'equa riparazione spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio» (tranne ipotesi specifiche, quali quelle in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria). Peraltro, come chiarito dalla Suprema corte, situazioni come quella descritta costituiscono un vero e proprio «abuso del processo», del quale, contrariamente a quanto accaduto nella circostanza, deve dare prova puntuale l'amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata.
Rilevato che, nella fattispecie, la Corte d'appello non si era uniformata a tale orientamento, la Cassazione: a) ha ritenuto di annullare il provvedimento impugnato; b) ha stabilito che la procedura dinanzi al Tar si era protratta dieci anni oltre i termini di durata ragionevole (determinati, per il giudizio di primo grado, in tre anni alla stregua dei parametri fissati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di cassazione), senza un tempestivo impulso sollecitatorio di parte (l'istanza di prelievo era infatti stata presentata solo molti anni dopo l'iscrizione della causa); c) ha pertanto riconosciuto a ciascuno dei ricorrenti, in via equitativa, il ristoro del danno non patrimoniale, quantificato in una somma pari a 6.500 euro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA