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La metamorfosi di Zanetti, da splendido perdente a simbolo dell'Inter dei record

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Questo articolo è stato pubblicato il 17 maggio 2010 alle ore 14:42.
L'ultima modifica è del 18 maggio 2010 alle ore 12:33.


Una domenica di qualche anno fa, una delle tante di rabbia interista, chiama un ascoltatore in diretta alla radio. «Sapete qual è il male dell'Inter? Ve lo dico io, è faccia d'angelo. Sì il capitano: gioca tutte le partite, finisce la stagione senza ammonizioni. Un bravo ragazzo con la faccia pulita, ma un perdente. Con lui non si vincerà mai niente». Che non sia andata proprio così lo dice la cronaca. Questa è più che mai l'Inter di Mourinho, l'uomo buono per tutte le copertine. I giocatori sullo sfondo, con Milito, Eto'o e Sneijder davanti al gruppo che è un blocco di pietra; Balotelli a danzargli intorno con le sue stravaganze, persecuzioni, manie.

Questa è l'Inter di Mourinho senza discussioni, ma l'Inter è Saverio Zanetti. Arrivò nell'estate di quindici anni fa. 1995: Fini a Fiuggi aveva appena sciolto il Msi e Romano Prodi entrava in campo in politica, perché allora si "entrava in campo", non a caso; una ragazzina di nome Giorgia vinceva Sanremo con una canzone che si intitolava "Come saprei". Era l'anno del gas nervino nella metropolitana di Tokyo, del massacro di Srebrenica, dell'assassinio di Rabin e dei pazzi nazisti dell' autobomba contro l'Fbi a Oklahoma City, quando il mondo ancora non poteva nemmeno immaginare ciò che sarebbe stato. E mentre al Tour moriva Fabio Casertelli, non era ancora nato il marziano Armstrong: Lance era solo, un corridore. Comparivano i Pokémon e la rivoluzione di Windows 95 e Javier Zanetti arrivava a Milano su un aereo insieme a Sebastiàn Rambert, detto Avioncito. E quello buono doveva essere Rambert. Come è andata lo sapete già. Javier è diventato Saverio e bisogna proprio essere brutte persone per considerarlo straniero. Nel giorno della celebrazione, delle pagelle stagionali, delle cronache sempre curiose dallo spogliatoio bagnato e di ogni gesto compiuto dal conquistatore portoghese, compresa quell'intervista molto teatrale alla tivu di stato, stravaccato sul pullman deserto, nel giorno di tutto questo il pensiero va, chissà perché, a Zanetti.

Il motivo è forse in quella secca affermazione iniziale che ci è rimasta stampigliata nel cervello: pensiero un po' cattivo che, bisogna ammetterlo ora e qui perchè se no sarebbe troppo semplice, non andava lontano dal nostro. Proprio vero che gli errori rimangono dentro più delle cose giuste. Per tutti gli altri è solo uno scudetto, per molti un altro scudetto ad aprire la settimana che porta alla partita dei sogni. Facile per loro. Ma bisognerebbe frugare nell'anima di Zanetti per capire davvero cos'è, per capire l'essenza dello sport: fiori che nascono dalla sofferenza di chi è convinto di vivere con una scimmia sulla spalla che non se ne andrà mai. La stessa che in queste ore abita addosso al più grande giocatore di basket del pianeta, Lebron James. Sì, perché portare in campo questa Inter con la fascia gialla sul braccio adesso è bello e semplice, gratificante. Ma Zanetti ha guidato in campo a testa alta anche tutte le altre Inter, quelle della saga di Paperino, quando dalle tribune non piovevano rose e amore, ma guano, rabbia, insulti e motorini che saltellavano giù dai gradoni della curva di San Siro. Quando al posto delle frasi piene gratitudine, sugli striscioni stava scritto "non so più come insultarvi".

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Tags Correlati: Fabio Casertelli | FBI | Gianfranco Fini | Hector Cuper | Inter | Javier Zanetti | Martin Palermo | Movimento Sociale Italiano | Pokémon | Romano Prodi | Saverio Zanetti | Sport | Windows 95

 

Era l'Inter degli interismi e lui ogni maledetta domenica metteva quella maglietta, infilava la fascia sul braccio e correva fuori davanti a tutti gli altri. Una mano appoggiata sul prato, il segno della croce e via nell'uragano, magari dopo essersi preso anche lo schiaffo sul petto da Hector Cuper. Farà così anche sabato sera a Madrid e ne siamo felici per lui, comunque vada: fosse un film vero e non un banale polpettone, la sigla di chiusura partirebbe con l'ingresso in campo non con la coppa tenuta per le orecchie. Poi ai mondiali ci andrà qualcun altro. Ci andranno gli juventini reduci dalla stagione brillante quanto sappiamo. Ci andranno, per stare alla sua nazionale, vecchi rottami argentini come Martin Palermo e Seba Veron. Ogni allenatore e ogni ct non riesce a sentirsi importante se non fa cadere teste senza ragione, nemmeno quando si chiama Maradona. È una specie di insulto calcistico e non solo, ma Saverio è un uomo e un vincente e dopo averne presi tanti sbucando per primo dal sottopassaggio, sa come ci si deve comportare: una carezza al prato, il segno della croce e via, con la testa alta di chi sa di essere dalla parte del giusto.

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