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I guru della pubblicità bocciano il simbolo del Pd

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2010 alle ore 16:43.

Finora la critica più pesante fatta al simbolo del Pd era venuta da fuori: qualcuno aveva notato che quel logo somigliava troppo a quello di un'agenzia olandese, anzi ne era praticamente il calco. Non male, in fondo, per una formazione politica abituata a ridiscutere tutto, leader incluso. Da ieri, però, il Pd tricolore con annesso un piccolo ulivo è finito sotto processo da parte di esponenti democratici. Debora Serracchiani lo trova «asettico» e chiede «un nuovo simbolo identitario». La discussione è aperta. Gli esperti di comunicazione dicono la loro.

Gianpietro Vigorelli, presidente del gruppo Bbdo e uno delle grandi menti creative del settore (suoi gli spot Campari "red passion" e le campagne Bmw degli ultimi dieci anni) concorda con la giovane europarlamentare: «Quel simbolo è freddo, come succede in modo inevitabile a un logo che è sostanzialmente una bandiera». Una scelta grafica che coincide anche con un approccio politico: «È frutto di un compromesso e della tendenza a non fare scelte. Si cerca di piacere a tutti, quando invece sarebbe meglio fare scelte coraggiose».

Eppure per Pietro Maestri, direttore creativo di Jwt, quel simbolo è da un punto di vista tecnico esemplare: «Pulito, lineare ed essenziale». Se però dal livello professionale si passa però a quello di "elettore" anche lui riconosce i limiti del tricolore democratico: «Andrebbe "scaldato", soprattutto se si guarda alla concorrenza degli simboli degli altri partiti». Magari come quello della Lega che un altro guru pubblicitario, Lorenzo Marini, indica come ideale: «I leghisti – spiega – sono gli unici che, con le bandiere e i fazzoletti verdi, hanno un loro codice coerente». La sinistra ha abbandonato il suo rosso per abbracciare il tricolore «che però non è mai stato il suo codice». Quello del Pd è addirittura «un simbolo incompleto»: «La "d" in bianco trasmette un senso di incompiutezza. Manca una suggestione visiva perché, invece di un simbolo, si è scelto un logotipo didascalico che non apre uno spazio visivo, come pure accade in alcuni celebri casi. Penso alla "a" di Alitalia che è un'icona alfabetica».

Come se esce? Per Marini il Pd deve sbrigarsi a cambiare e abbandonare la via delle lunghe trattative, anche sulle scelte di comunicazione. «Come interpretare altrimenti quel piccolo ulivo rimasto nel simbolo?».

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Per Maestri basterebbe pochi, mirati ritocchi: «Magari un cerchio intorno alla scritta Pd. Niente nuovi simboli, però».

I simboli per Vigorelli sono invece la via più efficace. «Come dimostrano i partiti americani: l'asinello per i democratici, l'elefantino per i repubblicani. Sono più facili da identificare per chi, come la maggior parte degli elettori, non si occupa ogni giorno di politica». E poi investire «veramente nella comunicazione, come fanno le grandi aziende, per costruire una solida corporate identity». Basta dilettanti, insomma. Il riferimento a Walter Veltroni che premiò la proposta di uno sconosciuto 25enne non è casuale.

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