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Chi si avvantaggia del conto salato di Bp causato dalla marea nera

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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2010 alle ore 17:09.

La marea nera che fuoriesce dal pozzo off-shore Macondo e che sta devastando il Golfo del Messico e le sue coste è un disastro enorme. Lo è stato per le 11 persone morte nell'esplosione e lo è per l'ambiente e per le entrate della Bp, che gestisce l'impianto e ne controlla il 65%. Il bilancio è pesante anche per le future prospettive di sfruttamento dei pozzi profondi, le cui norme di sicurezza sono destinate a essere più stringenti e, fatalmente, più costose.

Qualche società però potrebbe avvantaggiarsene. Nessuno dei concorrenti di Bp lo ammette, ma è logico che ci sia chi sta facendo i conti, preparandosi ad approfittare delle eventuali occasioni. Il valore di Bp, una major planetaria, cresciuta a cavallo del millennio grazie anche alle acquisizioni di Amoco e di Atlantic Richfield, dall'inizio dell'anno ha perduto oltre il 26% in Borsa e la sua capitalizzazione tra il 22 aprile (la data dell'incidente) e il 3 giugno ha lasciato sul terreno oltre 65 miliardi di dollari, calando sotto i 142 miliardi, la metà rispetto alla Exxon e il 14% in meno rispetto alla Shell, che abitualmente era "in sconto" sulla Bp.

Proprio Royal Dutch Shell negli anni scorsi era in predicato per una fusione gigantesca, un'idea abbandonata, ma capace, a questi prezzi, di tornare alla ribalta. L'ipotesi però non sembra credibile, per diversi motivi. In primo luogo, è assai difficile valutare l'impatto del disastro sul bilancio della società: tra costi dell'intervento, spese legali e risarcimenti, le cifre che escono dalle analisi degli esperti sono tutt'altro che certe. La Ing Bank valuta il costo in 5,3 miliardi di dollari, ma nelle previsioni del Credit Suisse si arriva fino a 37 miliardi (cifra, questa, che renderebbe difficile alla Bp garantire la distribuzione di dividendi senza alterare la stabilità finanziaria del gruppo).

Inoltre la stessa Bp sta correndo ai ripari e ha più volte ribadito negli ultimi giorni che proteggerà il valore e le entrate degli azionisti, per frenare l'emorragia degli investitori, in particolare di quelli istituzionali, preoccupati da uno scenario che potrebbe essere costellato da anni di cause, di risarcimenti, di tagli dei rendimenti, di riduzioni dei progetti di sviluppo.

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La solidità del gruppo è la sua prima difesa: proprio poche ore dopo l'esplosione a Macondo, Bp ha annunciato profitti trimestrali netti per 5,65 miliardi di dollari, in aumento del 135% sull'anno precedente. La liquidità dunque non manca. Si può sottolineare anche il fatto che un takeover di queste dimensioni non è da tutti. Potrebbero pensarci Exxon e Shell, ovviamente. Forse Chevron. Difficile che lo azzardi la cinese Cnooc, che avrebbe la disponibilità finanziaria, ma che probabilmente non gradirebbe essere respinta "politicamente", come avvenne quando tentò l'assalto all'americana Unocal.

Il gruppo francese Total, che capitalizzava venerdì 4 giugno poco più di 111 miliardi di dollari, si è espresso contro l'idea di un'opa, da chiunque provenga, tacciandola come «eticamente scorretta». Lo ha detto il suo amministratore delegato Christophe de Margerie, aggiungendo che sarebbe squallido «trarre vantaggio da una situazione così terribile». La dichiarazione di fonte Total mira forse a scoraggiare altri possibili concorrenti, ma riflette anche le incertezze sul futuro di alcun assets della Bp.

Il gruppo inglese opera in aree prevalentemente stabili sotto l'aspetto politico: è il primo operatore nel Golfo del Messico e nel Mare del Nord e tra i primi in Alaska. Ma una serie di disastri ne ha minato l'immagine: nel 2005 l'esplosione della raffineria Bp di Texas City causò 15 vittime e l'anno dopo la falla nell'oleodotto di Prudhoe Bay riversò in Alaska più di 200mila galloni di combustibili.

Il disastro di queste settimane, con più di 260mila barili fuoriusciti solo nel primo mese dall'esplosione, è peggiore di quello tristemente famoso della Exxon Valdez, del 1989. Una catena che sta creando fenomeni di boicottaggio a cui non sarà facile sottrarsi. Sette americani su 10 puntano il dito accusatore su Bp (oltre che sugli altri comproprietari di Macondo, Anadarko eMitsui, e sulle aziende produttrici e proprietarie dell'impianto incriminato). Il bersaglio ovvio è il sistema di distribuzione a marchio Bp. Negli anni passati le forme di boicottaggio verso le major non hanno avuto gran successo, ma oggi c'è da valutare l'impatto sul pubblico di mezzi di comunicazione e aggregazione come Facebook e Twitter.

Chi volesse lanciare un takeover dovrebbe quindi valutare bene ogni conseguenza. Anche Shell, che in passato stimava in 9 miliardi di dollari all'anno le sinergie provenienti da una eventuale fusione. Lo stesso dovrà fare chi spera di rilevare qualche pezzo pregiato, qualche asset che Bp potrebbe mettere in vendita per finanziare la propria difesa. Ma questa possibilità per il momento è sdegnosamente respinta dai vertici Bp. In sostanza, la società è obiettivamente più vulnerabile, dopo il disastro del Golfo del Messico, ma l'esame autoptico è decisamente prematuro.

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