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Questo articolo è stato pubblicato il 11 giugno 2010 alle ore 16:13.

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Dal Sol levante al sole calanteDal Sol levante al sole calante

Il Giappone sta affrontando una crisi che non è solo congiunturale ma affonda nel sostanziale superamento di un modello di sviluppo economico, tecnologico e produttivo che nel secolo scorso, dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale, lo ha portato in un ciclo virtuoso che sembrava invincibile. Poi arrivò la prima crisi, quella degli anni 90 e l'incapacità ad evolvere di un sistema ingessato, basato su strutture industriali elefantiache, i cosiddetti zaibatsu e keiretsu, con costanti osmosi lobbistiche con il mondo politico e sul ruolo di ministeri per il commercio, l'industria e l'economia che a suon di piani quinquennali dal sapore sovietico dopo la disfatta bellica portarono il Giappone ai vertici della tecnologia e dell'industria medio-leggera come quella automobilistica.


Del resto il Giappone per anni era sinonimo stesso di h-tech, di altissima tecnologia e di elettronica avanzata. Era una spanna sopra gli americani e gli europei. E la strategia di puntare su questa industria fu una scelta azzeccata negli anni sessanta: il governo voleva scommettere sulle imprese ad alto contenuto cognitivo e dunque sulla frontiera dell'industria leggera dell'elettronica civile per ridurre la dipendenza dagli approvvigionamenti petroliferi. Acciaio e cantieristiche erano energeticamente troppo onerose, mentre la microelettronica lo era decisamente meno e per di più alimentava la spinta alla scolarizzazione di alto livello. E così negli anni 70 e 80 il Giappone trionfava con i suoi stereo, le sue macchine fotografiche e sofisticati sistemi audio e video. In Giappone fu inventato il videoregistratore (Vhs e Betamax dove Sony diede battaglia alla rivale Mastushita) e il compact disc (Sony con Philips) insieme a una miriade di standard. Alcuni strategici, altri cancellati dalla storia per astrusità tecnica. Comunque sia, il Giappone con le sue grandi Sony e le Panasonic, con le Toshiba e le Sharp, nonché con le piccole Pioneer e Onkyo, Denon o Accuphase, era il paese dell'elettronica. Quella analogica però. Il terremoto arrivò con l'era digitale, dei computer e di internet. Era un mondo alieno dove alle megacorporation nipponiche mancavano alcuni punti chiave: il software e la capacità di ipotizzare un mondo tecnologico fatto di standard aperti e non cocciutamente proprietari, appannaggio di singole aziende. Un esempio: nel 1992, agli albori del Web e solo qualche anno prima del boom dell'Mp3, Sony inventò il Minidisc, un dischetto per l'audio digitale in formato compresso, con una qualità dunque inferiore a quella del cd ma più portabile. Fu un fallimento. Il minidisc nonostante lo straordinario algoritmo piscoacustico Atrac non fece breccia: troppo vecchio, datato e lontano dai nuovi modelli di consumo della musica digitale. E solo tre anni fa la Sony si arrese all'Mp3. E così la casa che inventò il walkman fu sconfitta dall'iPod di Apple, l'ultima arrivata nell'audio e che produceva i televisori migliori del mondo, quelli con il tubo Trinitron, iniziò ad avvitarsi su se stessa mentre i più veloci coreani come Samsung che la aggredivano con i loro Lcd mentre lei non riusciva a emergere nel nuovo oceano dei flat tv.
Questi sono solo alcuni esempi esemplificativi per dire che l'industria elettronica giapponese, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, non fu in grado di esprimere un modello vincente. Il Giappone non fu in grado di cavalcare la rivoluzione dei personal computer nonostante che case come Toshiba e Nec inventarono i netbook. Già, il pc (e tutta l'epopea della microinformatica) era un fenomeno americano, con i chip Intel e Amd e software Microsoft, mentre le schede madre era appannaggio dei taiwanesi. E il personal computer inoltre iniziò a diventare una scatola magica che poteva fare (e fa ancora) di tutto: riproduce video, film e fa i giochi. E il suo essere macchina universale mise di fatto in cantina stereo e hi-fi e tutti gli apparecchi che sapevano fare una sola cosa. A frenare l'hi-tech del Sol levante, anche l'implosione di alcuni mercati come il car stereo per esempio o l'hi-fi appunto, sepolti sulla scia di mutamenti irreversibili nelle dinamiche di consumo.
La frontiera dell'hi-tech si stava spostando altrove: verso il web e il mondo dei cellulari. E nei telefonini, che in fondo rappresentano, almeno numericamente il primo mercato dell'elettronica, il Giappone non fu in grado di incidere. Sony, Nec e Panasonic erano incapaci di reagire allo strapotere di Nokia, che - sorta di "Mivar del Baltico" - si era tuffata nell'avventura mobile del Gsm. Vincendola. E così la telefonia mobile, inventata dagli Americani di Motorola, in Giappone prese strade (leggasi DoCoMo) ben diverse da quelle percorse in Europa. E per di più i produttori nipponici si ostinavano a utilizzare il loro standard. Quello della predilezione di chiudersi in formati proprietari è davvero il cardine del Dna isolazionista nipponico anche nell'hi-tech
La rivoluzione di Internet fu anch'essa vissuta senza un ruolo chiave delle grandi imprese giapponesi: il web fu subìto e non cavalcato con un errore prospettico di enorme portata che mise l'hi-tech nipponica, non interconnesse, di fatto fuori mercato e fuori moda. E così case come Sony in possesso di tutta la catena del valore nei media digitali: dai film alla musica, dai contenuti all'hardware non furono capaci di aprirsi a un mondo più libero e foriero di sfide che si potevano vincere diventato più veloci. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il mondo online è a stelle e strisce (Google e Facebook per esempio), i computer sono dominati dai taiwanesi e americani, mentre i coreani (Lg e Samsung) spopolano nel grande mercato dei flat tv e in quello dei cellulari, dove sono gli unici in grado di dare del vero filo da torcere a Nokia.

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