Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno 2010 alle ore 08:19.
ROMA. Quasi quasi me ne vado in pensione. O torno a fare l'imprenditore. Silvio Berlusconi appare quasi quasi rassegnato quando parla, in mattinata, davanti alla platea di Confcommercio. Parla di intercettazioni, naturalmente, e lascia trapelare un cambio di passo "obbligato": il ddl Alfano scivola verso settembre e potrebbe anche essere modificato nei punti più controversi. Sullo sfondo, la tentazione del Cavaliere di mollare la presa su un testo che, strada facendo, sta perdendo le sembianze di Berlusconi, Alfano, Ghedini, per assumere quelle di Napolitano e Fini.
Di fronte all'assemblea di Confcommercio, il premier non rinuncia alle solite iperboli per giustificare la crociata anti-intercettazioni del governo: «Siamo tutti spiati»; «7 milioni e mezzo di persone possono essere ascoltate»; «viviamo in un paese che non è una vera democrazia», scandisce; ma poi - quasi a giustificare il revirement che qualche ora dopo sarà sancito dallo stato maggiore del Pdl - dipinge una situazione bloccata per il governo: si lamenta che dopo due anni di discussione in Parlamento, ora la Camera chieda un esame approfondito e quindi lo slittamento del voto a settembre; per di più, aggiunge, dopo l'approvazione, il Capo dello Stato potrebbe anche non firmare il ddl; e comunque, conclude, «quando la legge uscirà, sicuramente non piacerà ai pm della sinistra, che ricorreranno alla Consulta, già pronta, per quanto ne so, ad abrogarla».
Insomma, è tutta colpa «dell'architettura istituzionale» se, alla fine, si farà come dice il presidente della Camera Gianfranco Fini sui tempi di discussione in Aula del provvedimento, destinato ad andare in coda alla manovra finanziaria e persino alla riforma dell'università, per essere votato - forse - a settembre. Un esito categoricamente escluso dai berlusconiani fino a martedì sera, ma che ieri è stato ingoiato a palazzo Grazioli dal vertice del Pdl, assente solo il ministro Angelino Alfano che da New York ripeteva: «I tempi sono maturi».. «L'importante è votare tutti i provvedimenti al più presto», spiegava il capogruppo al Senato Gasparri, in un'inedita veste dialogante. «Vedremo successivamente come articolare meglio la soluzione delle tre priorità», aggiungeva il capogruppo della Camera Cicchitto. La verità è che il muro dei finiani, l'attenzione del Quirinale e lo spettro della Consulta (oltre alle barricate dell'opposizione, dei giornalisti, degli editori, dei magistrati) hanno convinto il Pdl ad abbandonare l'idea dell'approvazione del testo entro l'estate, senza modifiche e per di più con un voto di fiducia.