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Agenda d'autunno. Il mondo in cerca di equilibrio tra ripresa lenta e costo degli aiuti

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2010 alle ore 08:04.

Si ricomincia. Male. L'autunno si presenta più grigio del previsto: la ripresa è lenta negli Stati Uniti, e minaccia di frenare anche in quelle economie - come Eurolandia, o l'Asia - che hanno sorpreso per la loro dinamicità; l'occupazione non aumenta come dovrebbe, e si teme la deflazione o, all'opposto, l'iperinflazione. Non va meglio in Italia dove per l'industria si profila un settembre grigio. La situazione è meno drammatica di due anni fa ma oggi c'è un problema in più: la politica economica.

Questi gli appuntamenti principali d'autunno in Italia e nel mondo.

È il paradosso del 2010. Le misure monetarie e fiscali - necessarie, chieste da tutti a gran voce - hanno risolto le emergenze, ma ora presentano il conto; mentre le grandi linee di faglia dell'economia del pianeta - quelle sotterranee, che hanno alimentato la crisi - sono minacciose quanto prima.

Gli interventi di emergenza della crisi hanno toccato solo la superficie dei problemi, e ora creano nuovi rischi. Le banche centrali hanno fornito alle economie un diluvio di denaro, oggi a livelli record rispetto all'attività reale; ma, ha spiegato David C. Wheelock, economista alla Fed di St. Louis, «potete portare un cavallo all'acqua quanto volete...»: se non vuol bere, non beve.

È quello che sta accadendo, soprattutto negli Usa, ma non solo lì. Con il rischio che la liquidità, abbondante e generosa, si incanali su questo o quel mercato - anche estero: le banche centrali sono nazionali, l'economia no - travolgendolo.

Ben Bernanke sa cosa dice quando assicura - come ha fatto venerdì - che «se fossero necessarie ulteriori iniziative, sono disponibili altri strumenti». Lui stesso ha però ammesso che passi del genere «richiedono un'attenta valutazione di costi e benefici». La Fed e le altre banche centrali possono acquistare titoli di Stato, o azioni (lo fa già l'Autorità monetaria di Hong Kong) o prestare denaro direttamente alle aziende. I vantaggi potrebbero essere tuttavia piccoli rispetto agli effetti collaterali, oltre tutto non immediati, e quindi non facilmente individuabili: l'inflazione, le bolle, una valutazione distorta dei rischi. Cadrebbero poi su un settore finanziario per il quale mancano ancora le nuove regole e la nuova vigilanza, in forte ritardo. Iperprotetto da garanzie statali esplicite e implicite, quel mondo resta un po' autoreferenziale: lì - dice Raghuram Rajan dell'Università di Chicago - «la moneta è misura di tutte le cose».

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Industria a corto di ordinativi

Settembre grigio per le imprese italiane. Alla ripresa dell'attività, le aziende si ritrovano con

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Al di là della politica monetaria, resta poco o nulla. Gli interventi fiscali sono al limite, i debiti pubblici sono molto alti. Le vicende di Eurolandia, le tensioni su Grecia, Spagna e Portogallo, hanno spaventato gli investitori: «Non chiedetevi se gli stati (del mondo intero, ndr) andranno in default, ma come», è il titolo di una ricerca di Arnaud Mares di Morgan Stanley che - partendo dall'idea che i rapporti debito/Pil non dicano tutto - prospetta un'età di «oppressione finanziaria»: inflazione, tasse più alte, quotazioni distorte dei titoli di stato...
La strada lungo cui camminano i governi è diventata un sentiero molto stretto; e rende tutto più difficile la tendenza dei politici ad avere una visione di breve periodo: le prossime elezioni, anche solo quelle locali. Proprio quando ci sarebbe bisogno, oltre che di mercati solidamente concorrenziali, di stati forti ed efficienti nel loro campo d'azione.
Efficienti, i governi non lo sono stati. I conti in deficit non hanno fatto molto per l'economia reale. Una quota molto importante dei disavanzi è frutto di automatismi, non di scelte mirate: minori tasse, per la recessione; più spese per i sussidi, per esempio di disoccupazione. Molte risorse sono poi state usate, spesso male, per i salvataggi (anche se alcune potranno essere recuperate).

I nodi strutturali, quelli che hanno alimentato la crisi, non sono stati toccati. Le tensioni demografiche ora minacciano persino la Cina, alle prese con la politica del figlio unico. L'occupazione dei paesi avanzati, intanto, non risponde bene agli stimoli, e non è una questione di flessibilità. Domanda e offerta non si incontrano: in alcuni mercati settoriali si chiedono competenze che mancano; in altri c'è un eccesso di lavoratori. L'effetto è una crescente diseguaglianza - negli Usa, in Gran Bretagna, anche in Italia - non sempre avvertita come problema (ma l'allarme dell'Fmi risale al 2007).

C'è anche un problema "nascosto" di monopoli legali. Sono stati messi in evidenza nel caso greco, ma sono dappertutto. Protezioni, garanzie - moltiplicate, con la crisi - licenze anche professionali, marchi, brevetti (occorre rispettarne 3mila, per costruire un pc), sussidi e persino la pubblicità (è l'antica lezione del liberista Henry Simons) creano rendite di posizione, riducono la concorrenza e disincentivano la ricerca. Gli investimenti sono così "in sciopero", da prima della crisi. Incidere su questi nodi, però, significa toccare élite potenti. E sicuramente non basta un'inondazione di denaro pubblico.

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