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Lavoro stabile per otto rifugiati su 10. Così Trapani dimostra che l'integrazione è possibile

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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2010 alle ore 14:47.

Immigrati uguale problema da affrontare e risolvere. Integrazione uguale minaccia per il benessere e i diritti sociali faticosamente acquisiti dagli italiani. Risposte forse troppo nette per un quadro globale complesso. Soprattutto se poi, magari in Sicilia, regione - come buona parte del Sud del paese - storicamente alle prese con alti tassi di disoccupazione, esistono piccole isole felici in cui si dimostra che l'inserimento degli stranieri nel mondo del lavoro è possibile. È accaduto negli ultimi anni - e accade tuttora - a Trapani, grazie al lavoro della Caritas e degli enti locali.

I numeri parlano chiaro: a partire dal 2006 la Caritas trapanese ha ospitato circa 350 persone. Con risultati interessanti se si pensa che l'80% di chi ha ottenuto lo status di rifugiato lavora stabilmente e con un contratto regolare. Funziona così: nei sei mesi successivi all'arrivo si garantiscono accoglienza, cure mediche in caso di necessità, corsi di italiano e attività mirate alla formazione professionale. Il passo successivo è creare condizioni favorevoli all'ingresso nel mondo del lavoro degli assistiti. .

Cinquanta di loro vivono a Trapani, dove le imprese del settore agricolo, edile e alberghiero continuano a chiedere personale da impiegare in mansioni di vario genere, dalla coltivazione dei campi alla reception, fino all'attività di fattorino o di operaio specializzato. Alcuni dei richiedenti asilo, invece, lavorano nelle cooperative che collaborano con la Caritas e si danno da fare per aiutare chi oggi si trova in condizioni simili a quelle in cui versavano loro quando erano appena arrivati in Sicilia

«Qui da noi i cittadini extracomunitari, in prevalenza di origine africana, dopo qualche diffidenza iniziale, hanno trovato una positiva accoglienza sia da parte della cittadinanza sia da parte delle imprese», spiega don Sergio Librizzi, direttore della Caritas di Trapani. In particolare, ha funzionato bene il programma rivolto ai richiedenti asilo e ai rifugiati (Sprar), gestito con i fondi stanziati dal ministero dell'Interno e in collaborazione con il Comune e la Provincia.

Negli ultimi mesi, possibile conseguenza dell'accordo siglato lo scorso anno tra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e il leader libico Muammar Gheddafi, gli arrivi sono diminuiti e ci sono poche barche che partono dalla Libia in direzione di Lampedusa. «Però, in base ai dati di cui disponiamo, non è sceso il numero degli stranieri che giungono in Italia, sono soltanto cambiate le rotte e i luoghi in cui avvengono gli sbarchi», afferma don Librizzi.

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I programmi pubblici destinati all'accoglienza degli stranieri? In molti casi sono frenati e

Tags Correlati: Africa | Alfredo Mantovano | Caritas | Lampedusa | Ministero dell'Interno | Muammar Gheddafi | Noe Yeboua | Padova | Sergio Librizzi | Silvio Berlusconi | Trapani | Volontariato

 

Considerati i risultati del sistema di protezione per i rifugiati e i richiedenti asilo, sostiene ancora il direttore della Caritas trapanese,andrebbero incentivati programmi analoghi: «Soprattutto nei confronti di donne e minori, di coloro che hanno disagi fisici o psichici e in aiuto di tutte quelle persone propense a inserirsi armonicamente all'interno di una nuova comunità. Una politica di questo genere sortirebbe esiti migliori di quella che privilegia le espulsioni e alla fine sarebbe anche meno onerosa per le casse dello Stato, poiché l'organizzazione dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) prevede misure di sicurezza e polizia assai costose», conclude don Librizzi.

Di tutt'altro avviso il sottosegretario al ministero dell'Interno Alfredo Mantovano, critico nei confronti dell'orientamento del direttore della Caritas trapanese: «Il programma per i richiedenti asilo riguarda categorie ben precise di persone e non può essere esteso ad altri soggetti. Per tutti vale quanto prevedono le leggi nazionali e comunitarie, per cui si ottiene il permesso di soggiorno e ci si può stabilire in Italia se si ha un lavoro, in caso di ricongiungimento familiare o se si rientra in uno degli altri programmi di protezione contemplati dalle norme». Il sottosegretario, poi, evidenzia le forme di tutela previste per i minori non accompagnati o per chi abbia problemi fisici o psichici: «Per i primi c'è un sistema di accoglienza specifico che coinvolge direttamente i Comuni, mentre dei secondi si prende cura il servizio sanitario nazionale».

Le storie di Noe Yeboua e Boubakar Diakité
Noe Yeboua, 34enne di nazionalità ivoriana, arriva in Italia nel giugno del 2008, con l'idea di trovare un luogo più ospitale rispetto alla Costa d'Avorio, che ancora oggi mostra i segni della guerra civile svoltasi tra il 2002 e il 2004. «Inizialmente mi sono stabilito a Padova, dove vivono alcuni amici e dove è stata accolta la mia richiesta di asilo. Tuttavia, in quell'area i centri di accoglienza non avevano posti liberi e così, senza un luogo sicuro dove dormire, vivevo soprattutto per strada», racconta Noe, che oggi lavora a tempo pieno come mediatore culturale presso una delle cooperative che fanno capo alla Caritas di Trapani, prestando la prima assistenza ad altri immigrati e facendo, se necessario, da interprete.

Due mesi dopo il suo arrivo, grazie alla ricerca svolta dalla Questura di Padova, Noe ha trovato ospitalità presso la Caritas di Trapani. «Qui da subito sono stato trattato come uno di famiglia. E, grazie alla mia passione per le lingue straniere, rivelatasi più utile e preziosa rispetto al diploma di perito elettronico conseguito nel mio paese, ho avuto la possibilità di collaborare con Don Librizzi e di aiutare altri migranti provenienti dall'Africa».

«Ho deciso di lasciare il mio paese, il Mali, nel 2006 - racconta Boubakar Diakité, 31enne - per sottrarmi alla leva obbligatoria che impone al primogenito maschio di ogni famiglia di entrare nell'esercito. Così, mi sono diretto in Libia, dove sono stato arrestato e ho trascorso qualche giorno in prigione, poiché ero sprovvisto di documenti. Una volta rilasciato sono riuscito a imbarcarmi verso Lampedusa, sborsando 3.000 dollari per assicurarmi un posto sul barcone», Il viaggio è stato lungo e faticoso: nove giorni in mare con un solo bicchiere d'acqua a testa ogni 24 ore.

«Siamo partiti in 34, ma siamo arrivati in 33, poiché uno di noi è deceduto in mare, probabilmente per colpa della sete e della stanchezza». Oggi Boubakar è assunto, con un contratto a tempo indeterminato, come fattorino in un albergo di Trapani. Grazie alla stabilità lavorativa ha potuto affittare un appartamento che condivide con un amico che viene dal Sudan.

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