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«Solo la Signora può portare pace», voci incredule su Aung San Suu Kyi libera.

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Questo articolo è stato pubblicato il 13 novembre 2010 alle ore 10:29.

«Non potete capire». E' la risposta di molti rifugiati birmani alle domande sul come, quando e perché della liberazione di Aung San Suu Kyi, leader carismatica dell'opposizione, incarnazione, nella sua esile figura, di tutti i valori per cui hanno sofferto e continuano a lottare in esilio. Secondo le ultime informazioni è stata liberata questa mattina. «E' tutto molto strano. Non mi fido di loro. Se la liberano tutto il popolo, tutta la nazione sarà felice. E loro questo non lo vogliono», commenta un monaco, reduce della rivolta di zafferano del settembre 2007 che ora vive in un monastero di montagna.

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«Non potete capire», non è un'affermazione di relativismo culturale. E' una constatazione. Come potremmo capire, ad esempio, la gioia senza se e senza ma dei rifugiati birmani alla notizia dell'imminente liberazione della loro Signora?

La maggior parte di quegli uomini e quelle donne ha passato anni nelle prigioni birmane, è stata torturata: in questo momento, un momento che si dilata tra venerdì 12 e sabato 13, sperano solo che qualcuno da Rangoon (come ancora chiamano la ex capitale birmana, ribattezzata Yangon dai generali) li contatti per dire che la Signora è uscita dalla casa dov'è agli arresti domiciliari, dove ha passato gli ultimi dei 15 anni trascorsi in varie sedi di detenzione. I dubbi, le analisi, verranno dopo.

«Lei è come mia madre», dice Tiha Yarzar. Lui ha trascorso in prigione 17 anni, sei mesi e 17 giorni. E' stato picchiato e torturato. Rinchiuso in cinque dei più duri penitenziari Birmani. La sera del 12 novembre, sembra rivivere il momento quando lui stesso è stato liberato. «Un prigioniero sogna spesso di essere liberato. Ma ritorna sempre in prigione quando si sveglia» dice. Adesso è davvero convinto di essersi svegliato libero.

«Voglio tornare a casa. Non voglio abitare da qualche parte. Voglio tornare a casa. In Birmania», dice Kyaw Sae, altro rifugiato ed ex prigioniero politico. Ora vive in un campo profughi, ma spera che la strada di casa si stia aprendo. «Non so quando, magari tra un anno, ci ritroveremo a Rangoon» dice.

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A Mae Sot, 380 chilometri a nord-ovest di Bangkok e cinque dal ponte dell'amicizia che sovrasta il fiume Moei, confine tra Thailandia e Birmania, di personaggi come loro se ne incontrano moltissimi. Little Burma la chiamano, oppure "The City of Exiles", la Città degli Esuli".

Nel corso della notte, smaltito il primo momento di euforia, mentre la liberazione della Signora è rimandata al giorno seguente, anche gli esuli cominciano a porsi i primi dubbi, a tentare le prime spiegazioni. La più diffusa è semplice. La sintetizza Andrew, nome con cui si presenta un rifugiato con cinque anni di prigione alle spalle che oggi lavora per l'agenzia stampa Democratic Voice of Burma. «La rilasciano per due motivi fondamentali. Il primo è per rispondere alle pressioni internazionali e quindi accreditarsi come interlocutori politici. Insomma, per sancire la loro legittimazione dopo le elezioni. Il secondo e più importante è perché in questo momento devono affrontare gli attacchi delle milizie etniche e solo la Signora può portare a una tregua, trattare per il processo di riconciliazione. In questo senso i generali non hanno nulla da perdere. Se ci riesce, potranno concentrarsi sul dissenso interno. In caso contrario potranno dire che nemmeno lei può risolvere il problema dell'unità nazionale. In ogni caso hanno sempre la possibilità di dichiarare lo stato d'emergenza e riassumere il potere apertamente. Il passaggio finale potrebbe essere la dichiarazione di una nuova road map per la democrazia e la proclamazione di nuove elezioni per il 2015».

I problemi etnici in questo momento sono i più preoccupanti per i generali dell'SPDC (State Peace and Development Council), la giunta militare che rappresenta la cupola del potere birmano, e i loro avatar dell'Union Solidarity and Development Party, il partito che ha vinto con una maggioranza autodichiarata dell'80% le elezioni farsa del 7 novembre ("Seven Eleven" le chiamano, un po' per riecheggiare il tragico Nine Eleven americano, e un po', più ironicamente, il nome della popolare catena di minimarket diffusa in Thailandia, dove si compra di tutto). Dopo le elezioni, infatti, i maggiori gruppi etnici inglobati nell'Unione del Myanmar (circa il 40% della popolazione) hanno visto minacciate le loro speranze d'autonomia.

«Vogliono schiacciarci. L'SPDC non ha alcuna volontà di negoziare con i gruppi etnici», dice Lway Aye Nang, segretario della Lega delle Donne Birmane, una pasionaria Shan, etnia stanziata tra le montagne orientali birmane. «Ecco perché si sta formando una nuova alleanza tra i gruppi. Abbiamo un interesse comune. Noi non vogliamo un conflitto interetnico, come dice la propaganda della giunta, vogliamo l'autonomia».

Che non sia solo un progetto lo si è visto il giorno stesso delle elezioni. Gli uomini della quinta brigata del Democratic Karen Buddhist Army (DKBA), una delle milizie Karen – gruppo stanziato lungo il confine centro orientale birmano - hanno occupato Myawaddy, città birmana di fronte a Mae Sot, all'altro capo del ponte dell'amicizia. Il giorno seguente è stata la volta di Pyaduangsu, sul lato birmano del Passo delle Tre Pagode, un centinaio di chilometri più a sud. Quarantotto ore dopo l'esercito birmano aveva ripreso il controllo dei due centri, ma il colonnello Saw Lah Pwe, comandante della brigata DKBA ha risposto annunciando un cambio di strategia con l'intensificarsi della guerriglia nella foresta che copre le valli lungo il confine.

Il mattino del 13 novembre, mentre la liberazione della Signora sembra rimandata a dopo il tramonto, a Mae Sot girano voci di prossimi scontri oltre il confine. Intanto lo Shan State Army-North, l'esercito degli Shan del nord, ha attaccato diverse postazioni dell'esercito birmano sul loro territorio. Altri movimenti di milizie sono segnalati nei territori del nord del gruppo Kachin. Il cessate il fuoco siglato nel 1995 dall'SPDC con gli eserciti dei gruppi etnici sembra definitivamente concluso.

«Solo la Signora può portare la pace. Tutto il popolo la ammira, tutti i gruppi etnici la apprezzano», ribadisce Kyaw Sae, forse con eccessiva sicurezza. Anche lui sa che la liberazione di Aung San Suu Kyi è una manovra per legittimare il loro potere e risolvere il problema etnico: con la sua intermediazione o utilizzandola per distogliere l'attenzione dalle operazioni militari. Ma spera, come tutti i rifugiati politici, che questa manovra possa ritorcersi contro l'SPDC. «Ragionano da militari non da politici. Pianificano strategie, ma non tengono conto del fattore umano».

Più pragmatica l'analisi di Andrew. «Al regime non interessa la stabilità, interessa il controllo. Con la liberazione di Aung San Suu Kyi possono anche creare instabilità, ma hanno tutti i mezzi per mantenere il controllo. Tanto più dopo aver risolto il problema etnico».

«E' difficile prevedere che cosa accadrà nelle prossime due ore o nei prossimi due giorni. Un fatto è certo: è iniziato un conto alla rovescia», dice Moe Thee Zon, uno dei più importanti oppositori al regime (che lo ha condannato a morte), tra i fondatori del movimento studentesco del 1988. Secondo Moe il conto alla rovescia è scandito da entrambe le parti, con tempi diversi. Da un lato i gruppi etnici, che devono ottenere qualche rapido risultato: è in gioco la loro stessa sopravvivenza. Dall'altro i militari, che hanno il tempo a loro favore e vogliono raggiungere un obiettivo molto ambizioso: ridefinire la Birmania come una potenza dell'area. E' per questo, secondo Moe, che sono seriamente intenzionati a procedere nel programma di costruzione della bomba atomica.

E' un conto alla rovescia che può essere accelerato o rallentato dalla liberazione di Aung San Suu Kyi. La Signora lo sa bene. Come sa che la sua liberazione potrebbe anche essere una condanna a morte. E' gia accaduto nel 2003, un anno dopo la sua seconda liberazione, quando cercarono di assassinarla. Non ci riuscirono e così la rimisero agli arresti accusandola di fomentare i disordini.

Come dicono: «Non possiamo capire». E' vero: è come assistere a un gioco di cui non conosciamo le regole. Ma non perché, come in certi giochi orientali, siano tanto numerose quanto esoteriche. Perché questo è un gioco in cui le regole le conosce solo uno dei giocatori e le cambia come e quando vuole. Sempre che l'altro giocatore non decida di sparigliare le carte o addirittura di non prestarsi al gioco.

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