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Norme e Tributi Lavoro

Un assist a chi si sente penalizzato

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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2010 alle ore 06:37.

Il punto di partenza è certo. Sono invece ancora da decifrare le conseguenze della sentenza della Corte di giustizia del 18 novembre 2010 (caso Kleist, si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri), con la quale la Corte Ue ha chiarito che la differente determinazione dell'età pensionabile tra uomini e donne non è solo una discriminazione in base all'età (come già precisato proprio nella sentenza di condanna all'Italia del 13 novembre 2008) ma anche in base al sesso.

Il principio
Gli Stati non possono trattare in modo diverso lavoratori che si trovano in situazioni identiche o comparabili inserendo differenze di trattamento solo in ragione del sesso. Un principio che la Corte non ha limitato alle questioni riguardanti l'età pensionabile, ma ha esteso anche al settore della cessazione del rapporto di lavoro per altri motivi e che, nella visione dell'avvocato generale Kokott, riguarda ogni comportamento in grado di incidere sulle discriminazioni basate sul sesso. Era dalla sentenza Marshall del 26 febbraio 1986 (causa C-152/84) che la Corte non precisava in modo analitico l'esistenza di una discriminazione in base al sesso.

L'interpretazione dalla Corte, secondo la quale determinare il criterio dell'età pensionabile solo sulla base del sesso significa violare il principio di non discriminazione (intesa in senso ampio, quindi non circoscritta all'età), è destinata ad avere effetti sul piano degli ordinamenti interni, incluso quello italiano. In primo luogo, perché i giudici nazionali, così come ogni autorità dello Stato, devono interpretare l'articolo 3 della direttiva 76/207 (modificata dalla 2006/54/Ce, recepita in Italia con il decreto legislativo 5/2010) in base ai parametri delineati dalla Corte Ue. Con la conseguenza che va disapplicato il diritto interno che contrasta con il divieto di discriminazione in base al sesso nei casi in cui una persona invochi il diritto dell'Unione europea per contestare le disposizioni interne e far valere un diritto riconosciuto da Bruxelles. Il principio di non discriminazione è un principio generale del diritto Ue. Come stabilito dalla Corte nella sentenza Mangold del 22 novembre 2005 (causa C-144/04), quando una norma interna rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario, costituendone un'attuazione, i giudici interni sono chiamati ad applicare la stessa normativa in linea con gli elementi di interpretazione forniti dalla Corte e, nei casi in cui ciò non sia possibile, a disapplicare il diritto interno.

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Tags Correlati: Corte di Giustizia | Italia | Lisbona | Unione Europea

 

La leva della sentenza
In secondo luogo perché, accertato che il divieto stabilito a carico dei datori di lavoro pubblici o privati ha, come conseguenza, che devono essere eliminate le discriminazioni nei casi di situazioni identiche o comparabili messe in atto solo per il differente sesso degli individui, si potrebbe verificare che il divieto di discriminazione sia invocato da uomini. Che, per esempio, potrebbero voler andare in pensione alla stessa età fissata per le donne e che, però, sulla base dell'ordinamento interno non possono farlo.

In base all'articolo 157 del Trattato di Lisbona gli Stati devono assicurare una parità tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, con l'obbligo per i giudici nazionali di garantire la tutela dei diritti dei singoli. Senza dimenticare gli articoli 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali Ue, divenuta vincolante dal 1° dicembre 2009 con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona: stabilisce il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso in materia di occupazione, lavoro, retribuzione (incluse le pensioni).

Si possono adottare misure per colmare svantaggi per il sesso sottorappresentato, ma nella sentenza Kleist la Corte ha negato che sia giustificabile una diversità di trattamento per promuovere l'inserimento professionale dei giovani.

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