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In morte di Enzo Bearzot, prototipo di hombre vertical e padre della patria (pallonara)

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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2010 alle ore 14:02.

È morto stamane a Milano un padre della patria. Uno dei pochi universalmente riconosciuto come tale, ancorché la sua fosse semplicemente la patria pallonara. O forse proprio per questo, perché il calcio per noi italiani è qualcosa di sovrasignificante, di immanente, di assoluto.

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Si è spento intorno alle 8, l'ora in cui durante i mondiali di Spagna in genere riusciva a prendere sonno per un paio d'ore dopo le sue nottate da coyote in cui a lenire l'insonnia cronica c'era la compagnia, a turno, di Tardelli, di Conti, di quelli che come lui maggiormente avvertivano la tensione per l'impresa che stava maturando. Lo ha assistito sino all'ultimo Luisa, che ha vegliato su di lui negli ultimi tempi difficili. La notizia, filtrata come sempre attraverso un misterioso tamtam nonostante la protezione della famiglia, è pubblica da non più di un paio d'ore. E il dolore, il cordoglio, la partecipazione sono tali che io stesso, amico fedele e come tale riconosciuto, sono travolto da telefonate, messaggi, mail che partecipano al mio dolore.

Tra un po', immagino, comincerà a scendere. A manifestarsi. Per ora riesco a non avvertirlo perché sono troppe le cose a cui badare per ricordarlo come merita.

Un galantuomo, innanzitutto
Il prototipo dell'hombre vertical. Severo e selettivo con gli altri esattamente come con sé stesso. Ma con una capacità di aggregazione straordinaria, forse unica. Le lacrime che stanno versando Paolo Rossi, Bruno Conti,Tardelli sono quelle di chi in un tempo lontano ha scoperto in Enzo Bearzot un secondo padre. E da allora lo ha sempre vissuto come tale, al punto che persino Dino Zoff, pur anagraficamente più vicino al vecio, lo chiamava "mio papà". Proprio sulla lealtà e insieme il calore dei rapporti all'interno della famiglia azzurra aveva costruito le fortune sue e della sua Italia. Ma il tutto per uno, uno per tutti, funzionava anche e soprattutto perché alla base c'era un progetto tecnico e tattico di primissimo ordine. La sua nazionale nacque da una reinterpretazione del modulo della grande Olanda anni '70. Eclettismo era la sua parola d'ordine: giocatori di grande polivalenza tattica, in grado di interpretare più ruoli. E poi la più bella delle sue raffigurazioni calcistiche: il concetto di calcio interpretato alla maniera del jazz, un'altra delle grandi passioni della sua vita.

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Tags Correlati: Bruno Conti | Catania (squadra) | Dino Zoff | Enzo Bearzot | Inter | Italia (squadra) | Luisa | Olanda (squadra) | Spagna (squadra) | Sport | Torino (squadra)

 

La batteria che dà i tempi di fondo, il sax come fantasista, il contrabbasso come un libero di concezione moderna, la tromba come goleador. E lui a dirigere l'orchestrina, a far rispettare i tempi musicali, sempre in funzione dell'assolo del solista che è poi quello che quasi sempre ti fa vincere le partite. Un uomo come il Vecio che passava per difensivista avendo imparato il mestiere da Rocco in realtà giocava sempre con due attaccanti di ruolo, un fantasista, una mezzala offensiva, un terzino d'assalto e un libero d'attacco come Scirea.

Addio vecio
Cos'altro ricordare, in fretta e furia, che ti avrebbe fatto piacere? Ah sì, certo, le 422 partite da mediano, con le maglie dell'Inter, del Catania e del mai dimenticato vecchio Toro. Più passavano gli anni, e più amava essere ricordato anche come calciatore, non soltanto come commissario tecnico campione del mondo. Senza aver bisogno di scriverlo, ha lasciato detto alla famiglia che avrebbe gradito un funerale senza clamori, così come aveva scelto di vivere negli ultimi vent'anni, una volta abbandonata la ribalta. Non sarà così facile accontentarlo, resistendo all'ondata d'affetto popolare. Ma in uno degli ultimi incontri, sentendosi non più così lontano dal capolinea, mi disse che per quel giorno avrebbe pensato a tutto Luisa. Sventando il pericolo dell'applauso al passaggio della bara.

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