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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2010 alle ore 11:29.
Uniti dalla voglia di riformare il sistema dell'istruzione universitaria italiana, divisi su come farlo. Divisi sui contenuti della riforma del ministro Mariastella Gelmini, dai finanziamenti agli atenei meritevoli ai nuovi consigli d'amministrazione, alla disciplina prevista per i ricercatori. Abbiamo intervistato due studenti universitari, uno contro e uno a favore della riforma, e chiesto loro perché. Il primo è Stefano Biosa, specializzando in giurisprudenza e membro del collettivo bolognese "Spazio Sociale", uno dei ragazzi che il 14 dicembre scorso ha sfilato e protestato per le vie di Roma. Il secondo è Fabio Mastroberardino, studente di architettura a Milano, senatore accademico del Politecnico e coordinatore del movimento universitario di "Generazione giovani", al quale invece «dispiace vedere i giovani scendere in piazza a difendere lo statu quo».
Con la riforma il merito entra all'università?
Stefano: «Merito vuol dire che un ragazzo in base al suo lavoro va avanti nel sistema universitario. Attualmente non è così, ma non lo sarebbe neanche con il disegno di legge Gelmini, perché "merito" di fianco a "tagli" vuol dire distruzione: il vero problema, oltre ai provvedimenti manifesto di cui si discute, è quello dei finanziamenti».
Fabio: «Finalmente si introduce nell'università il concetto di merito, questione fondamentale all'interno del sistema da sempre chiuso delle università italiane. Non è la riforma del secolo, ci sono meno fondi a disposizione rispetto al passato, ma vengono introdotti aspetti positivi che bisogna avere il coraggio di rendere ancora più efficaci: a partire proprio dal merito».
Cosa pensi del tetto al numero di facoltà?
Stefano: «Ben vengano i tagli alle facoltà inutili, cioè con corsi di laurea "fumosi" e poco frequentati, perché un corso in più vuol dire più possibilità per i baroni di ricollocarsi e inserire i propri fidati. C'era un'idea sbagliata per cui allargare i corsi significava più iscritti, più tasse universitarie e più finanziamenti. Ma questo non elimina il problema di fondo delle risorse mancanti».
Fabio: «Adesso viene messo il tetto di dodici facoltà per ateneo e questo va bene: mi sembra così normale che si debbano tagliare i corsi di laurea "fuffa". Ci vorrebbe però anche una riduzione degli atenei, perché l'Italia ha seguito in maniera sbagliata il modello dell'università "porta a porta", ogni piccola provincia ha il suo polo universitario, e questo si traduce in uno spreco di soldi e una scarsa formazione».
Come giudichi la nuova composizione dei consigli di amministrazione?
Stefano: «Ho fatto parte del senato accademico dell'università di Bologna, e ho visto che il vero organo decisionale è il consiglio di amministrazione. Se adesso si dà ancora più potere al Cda, in un quadro di tagli ai finanziamenti, chi deciderà cosa studiare? Chi darà l'indirizzo? Non dico che il privato non debba entrare nelle università, ma ci sono altre vie: lo stato potrebbe per esempio usare la leva fiscale. Con questo modo di fare si taglia ciò che è pubblico, si affida tutto al mercato, e si zittisce il dissenso».
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