Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 17 gennaio 2011 alle ore 09:03.
Il 17 gennaio 1991, poco più di diciotto ore dopo la scadenza dell'ultimatum dell'Onu che intimava all'Iraq di liberare il Kuwait una pioggia di bombe d'aereo e missili da crociera si abbatté su Baghdad, Bassora e molte altre città irachene. Nel mirino di oltre un migliaio di aerei da guerra, per lo più statunitensi ma anche Britannici, francesi e italiani (10 bombardieri Tornado) le basi aeree, le caserme i concentramenti di truppe e le postazioni irachene nel Kuwait occupato ma anche ponti, centrali elettriche, centri di comunicazione e tutte le infrastrutture petrolifere del Paese.
La crisi iniziata il 2 agosto 1990 con il blitz che portò le truppe di Saddam Hussein a occupare in appena quattro ore il piccolo emirato del Kuwait degenerò nel primo conflitto convenzionale del dopo Guerra fredda e insanguinò la stessa regione dove tra il 1980 e il 1988 si erano combattuti aspramente iraniani e iracheni lasciando sul terreno un milione di morti, per lo più militari. Proprio quel conflitto, che aveva lasciato l'Iraq economicamente distrutto, venne preso a pretesto da Saddam Hussein per lamentare la scarsa riconoscenza dell'Occidente e delle monarchie arabe del Golfo nei confronti dell'Iraq che aveva contrastato l'Iran khomeinista. L'accusa alle autorità dell'emirato di pompare petrolio iracheno dai pozzi di frontiera e le pretese territoriali avanzate nei confronti del Kuwait non vennero prese troppo sul serio nonostante ben 100 mila militari venissero concentrati lungo i confini per il blitz.
L'embargo dell'Onu a Baghdad e l'alleanza militare a guida statunitense
L'invasione del Kuwait, proclamato 19a provincia irachena, diede il via a un lungo tour de force diplomatico che consentì la liberazione dei molti civili occidentali ai quali Saddam Hussein aveva impedito di lasciare il Paese ma non sbloccò la situazione. L'Onu pose subito un embargo a Baghdad (al voto in Consiglio di Sicurezza si astennero Yemen e Cuba) e autorizzò la costituzione di una forza militare a guida statunitense tesa a proteggere l'Arabia Saudita e gli emirati da ulteriori puntate offensive irachene (operazione Desert Shield) e, dopo la scadenza dell'ultimatum posto all'Iraq, per liberare il Kuwait. Alla "coalition of the willing", come la definiremmo oggi, aderirono 32 Paesi, in gran parte con contingenti simbolici mentre un concreto ruolo militare lo ebbero solo britannici (45 mila soldati, 70 aerei, 13 navi) e francesi (18 mila soldati, 60 aerei, 8 navi) oltre a Egitto (40 mila soldati) e Siria (17
mila) a testimonianza del supporto del mondo arabo alla causa kuwaitiana.
Nel Golfo un'armata imponente
Il presidente statunitense George H W Bush schierò nel Golfo un'armata imponente, superiore al mezzo milione di soldati schierati in Vietnam nel momento di massimo coinvolgimento statunitense nel conflitto indocinese. In tutto 540 mila militari, 6 portaerei, 50 navi da guerra e sottomarini, 4.000 mezzi corazzati, 1.800 aerei e 1.700 elicotteri che il Capo degli stati maggiori riuniti, il generale Colin Powell, assegnò al comandante del Central Command, il generale dell'esercito Norman Schwarzkopf. Uno sforzo reso possibile anche dal recente crollo del Blocco sovietico e dalle neutralità di Mosca assicurata dal presidente Mikhail Gorbaciov.
©RIPRODUZIONE RISERVATA