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Djokovic vince l'inedita finale degli Australian Open Murray sconfitto e deluso ancora una volta

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 gennaio 2011 alle ore 15:48.

Dire che Djokovic e Murray appartengono alla stessa generazione è limitativo. I due non sono soltanto nati nello stesso anno, il 1987, ma a distanza di una settimana l'uno dall'altro: il 15 maggio il britannico, il 22 il serbo. Eppure il pubblico della Rod Laver Arena, oggi, era pronto a salutare la prima sfida tra i due valida per uno Slam. Ma anche al di fuori dei major non si sono incontrati poi così di frequente. Sette volte appena, prima d'oggi. Colpa della solita coppia di cannibali del tennis Federer- Nadal, che avevano tagliato quasi sistematicamente la strada ai due rampolli del circuito. Si trovavano, lo slavo e lo scozzese sempre in seconda fila nella griglia di partenza e, per tanto, dalla parte opposta del tabellone. L'uno a fare i conti con Rafa, l'altro con Roger. E quando uno di loro riusciva a fare lo sgambetto all'avversario, l'altro doveva sempre cedere il passo. Preconizzato da anni come la sfida del futuro, lo scontro Djokovic-Murray rimaneva, dunque, sospeso in un limbo in attesa della fine del dominio iberico-elvetico.

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Questo match indicato da molti come l'alba della nuova era (ma i conti con i due fuoriclasse, non dubitate, si dovranno fare ancora) si caricava così di significati simbolici. La rivalità del domani, la rivolta degli eterni secondi, l'affermazione della scuola tennistica serba, il primo Slam britannico da 75 anni. Tale groviglio di attese, speranze, aspettative, perfino allegorie, rendeva la partita qualcosa di diverso da un semplice match tra due atleti che ormai parevano diventati astri nascenti di professione. Predestinati da almeno tre anni. E questo, naturalmente, valeva soprattutto per Murray. Nole aveva già vinto e, per di più proprio qui a Melbourne, nel 2008 e poi si era portato a casa anche un Masters. Andy, invece, rimaneva la promessa, il tennista che è sempre lì lì per conquistare il primo major. Più di tutto, l'uomo incaricato dalle divinità tennistiche e dalla Patria di riportare agli inglesi la vittoria in uno Slam. La Gran Bretagna, mica una nazione qualsiasi! La culla del tennis, la nazione dove si gioca il torneo più antico e importante del mondo.

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Kim Clijsters (reuters)

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Di non essere a suo agio nei panni del prescelto, lo scozzese lo aveva ampiamente dimostrato negli anni passati. E lo aveva ribadito due giorni fa, in semifinale, soffrendo più del dovuto il ruolo di favorito contro un onesto manovale del tennis, dal grande cuore ma dal piccolo talento, quale è il valenciano David Ferrer. I tormenti del giovane Andy suonavano come un campanello d'allarme che non lasciava presagire nulla di buono per i sudditi di Sua Maestà.

Il talento certo non mancava a Murray, sarebbe, però, riuscito a fugare le torme di spettri che lo avevano fin qui gravato impedendogli di spiccare il volo? La risposta è arrivata decisa e ineluttabile, pesante come un macigno ancorato alle spalle dello scozzese. Così, la prima finale tra i due vice di Federer e Nadal, la tanto attesa sfida del domani, si è rivelata un monologo di Novak Djokovic. Solido, concreto, privo d'incertezze il serbo ha giocato il tennis praticamente perfetto che lo aveva portato fin qui. Lungo la strada aveva lasciato indietro un solo set, quasi una distrazione al secondo turno contro Dodig, rifilando un pesante 3/0 perfino a Roger Federer. E di non essere disposto a fare sconti nemmeno in finale lo ha dimostrato subito, fin da quel primo set che è stata l'unica frazione combattuta della partita. Per il resto, gli è bastato rimanere concentrato e macinare un punto dopo l'altro.

Per capire chi avrebbe vinto l'incontro, tuttavia, sarebbe bastato osservare l'atteggiamento, il linguaggio del corpo, forse anche solo la mimica facciale dei due. Nole appariva determinato, lo sguardo attento che non tradiva tensione, la postura eretta, il passo deciso. Dall'altra parte della rete, il povero Murray dava l'idea di essere uno che si domandava perché si trovasse in quel luogo maledetto, sottoposto ad un tale supplizio. Ciondolava, sbuffava, scuoteva la testa. Dopo quasi ogni punto importante messo a segno sospirava a lungo come un naufrago in balia delle onde che riesca per un attimo a tirare fuori il capo dai marosi. Si sarebbe detto che, soprattutto, non vedeva l'ora di andarsene dal campo.

Così, una volta incamerato il primo set per 6/4 da Djokovic, la partita correva su binari che parevano prestabiliti. Né Andy avrebbe mai dato l'impressione di poter uscire da quella ragnatela. Sotto addirittura per 5/0 nel secondo set, il britannico avrebbe avuto un ultimo guizzo, se così si può dire, nell'avvio della frazione successiva. Strappato il servizio a Djokovic avrebbe acceso le ultime timide speranze di una nazione, prima di spegnersi definitivamente pochi game dopo lasciando Nole libero di chiudere per 6/4, 6/2, 6/3 una partita senza storia.

Novak era di nuovo re in Australia, con il suo angolo che esultava impreziosito dalla presenza della deliziosa Ivanovic accorsa per sostenere il connazionale. Il serbo, che ora fa sentire il fiato sul collo a Federer dal quale è distaccato da una manciata di punti, si conferma così un vero campione e il futuro per lui si annuncia roseo.
A Murray, talentuoso ma fragile, invece non restava che sentirsi dire ancora una volta da tutti che non si deve demoralizzare, che con il suo tipo di gioco vincerà di sicuro uno Slam prima o poi, che lo aspettano tempi migliori. Sarà anche vero ma, ormai, sta diventando una sgradevole litania. E ogni volta, potete starne certi, per lui suona un po' peggio…

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