Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 17:58.
Di Riccardo Barlaam Domenica sera nel suo discorso televisivo alla nazione Saif al Islam Gheddafi (letteralmente la spada dell'Islam), il figlio prediletto del colonnello, ha evocato lo spettro della guerra civile e la prospettiva che la sua amata Libia, in caso di vuoto di potere, sia «occupata dai turchi e dagli italiani». In effetti c'è un legame di ferro negli affari tra l'Italia e il regime di Muammar Gheddafi, il leader africano più longevo, autoritario, salito al potere con un colpo di stato nel 1969 che ha portato all'eliminazione delle elezioni e dei partiti politici.
Nei rapporti economici l'Italia è al primo posto per l'export e al quinto per l'import da Tripoli, con un interscambio nel primo semestre 2010 che si aggira attorno ai 7 miliardi di euro, con stime superiori ai 12 miliardi per l'intero anno. Un legame cresciuto sull'asse energetico e che si è via via rafforzato negli anni dopo la cancellazione dell'embargo nel 2003 e, soprattutto, con la sigla del Trattato di cooperazione e amicizia italo-libico del 2008 (le sanzioni e l'embargo erano stati disposti dall'Unione europea nel 1986 e dall'Onu nel 1992 e rinnovati più volte). Cadute le sanzioni, cessato l'embargo, l'Italia si è trovata in prima linea per siglare nuovi accordi commerciali con la Libia.
Lo shopping del Colonnello Negli ultimi anni, dalla fine dell'embargo ogni qual volta che in Italia arrivava qualche esponente della famiglia, ministri o lo stesso Colonnello Gheddafi gli uomini d'affari made in Italy, i banchieri, i consulenti, i politici e i manager delle società partecipate facevano a gara per farsi vedere, per avere un posto al sole. Il motivo è presto detto. La Libia ha sotto la sabbia enormi riserve di greggio (è al nono posto tra i paesi produttori per riserve accertate ancora da sfruttare) e di gas naturale. In pochi anni, il prezzo del petrolio è schizzato dai 30$ al barile a sfiorare i 100 di oggi. Un mare di extra profitti. E in tempo di crisi Gheddafi era uno dei pochi soggetti che aveva liquidità da investire. E così, come mandava avanti la grande Jamahiriyah araba libica popolare socialista con potere di fatto assoluto, così il colonnello gestiva, con lo stesso potere personalistico, i suoi affari. La lista della spesa è lunga.
Ironia della sorte: il nuovo "colonizzatore" dell'economia e della finanza italiane è una ex colonia.
Qual è la strategia? A tracciare la strada è stato Farhat Bengdara, governatore della Banca centrale libica qualche tempo fa in un'intervista alla Associated Press. La Libyan Investment Authority (Lia), un fondo sovrano nato dalle ceneri della vecchia Banca Lafico appena fondata tre anni fa aveva una dote da spendere di 65 miliardi di dollari. «Puntiamo ad acquisire - aveva detto allora il banchiere centrale - non una grande quota in una singola società, ma tante piccole quote azionarie in differenti settori attraverso i mercati finanziari. Nel complesso ci compreremo il 3% delle azioni quotate sui mercati finanziari mondiali». Il fondo sovrano libico guardava e guarda ai mercati europei, americani, asiatici e a quelli emergenti; a settori immuni dalla crisi, come farmaceutica, utility, telecomunicazioni, società petrolifere e agroalimentari. Investimenti per fare soldi e per condizionare, quando ce n'è bisogno, le scelte economiche e politiche. Un esempio? La Svizzera. Il 15 luglio scorso 2008, in un albergo di Ginevra furono arrestati Hannibal Gheddafi, il figlio del colonnello, e la moglie incinta, dopo la denuncia di due domestici per maltrattamenti. La reazione dei suscettibilissimi libici ha avuto il sapore di una ritorsione: sospesi i rapporti diplomatici e quelli economici. Tripoli ordinò la chiusura degli uffici libici di multinazionali svizzere, come Nestlé e Abb. Arrestò i lavoratori svizzeri presenti nel paese per infrazione della legge sull'immigrazione. E - arma più potente - ritirò dai sicuri forzieri delle banche elvetiche depositi per 7 miliardi di euro (chissà dove sono ora...).
I paesi amici I miliardi di Gheddafi in questi anni sono affluiti in Italia, ma anche in Spagna e Gran Bretagna, «paesi amici». In partecipazioni azionarie e in depositi nelle Banche centrali, tra cui anche Bankitalia. All'Italia – e, più in generale, ai paesi occidentali – in un periodo come questo faceva comodo avere un paese amico con tanti soldi. Un paese che non era più nella lista nera degli Stati Uniti. La riabilitazione si è conclusa dopo che, nell'ottobre 2008 il governo libico ha versato 1,5 miliardi di dollari per risarcire le famiglie delle vittime degli attentati terroristici all'aereo Pan-Am, precipitato su Lockerbie, in Scozia, il 21 dicembre 1988 (270 morti) e alla discoteca La Belle di Berlino, il 5 aprile 1986 (3 morti e 260 feriti). Responsabili dei due attentati furono due agenti di Tripoli. Berlusconi, che in questi giorni non ha telefonato a Tripoli «per non disturbare», anche a proposito di Gheddafi aveva detto che è «un leader di libertà» e ha versato 5 miliardi di dollari alla Libia: il Trattato di cooperazione e amicizia firmato il 30 agosto 2008 tra Berlusconi e Gheddafi a Bengasi prevede il versamento alla Libia di 5 miliardi in 20 anni (soldi pubblici), come risarcimento dei danni per le guerre coloniali. In cambio di appalti, affidati a imprese italiane e ai capitali dell'ex colonia, che affluiscono in Piazza Affari per sostenere le imprese del Belpaese. Sdoganata dalle diplomazie occidentali, la Libia è, così, entrata nel salotto buono della finanza italiana.
Le partecipazioni nel salotto buono Attualmente la Libia controlla il 7,2% di UniCredit (attraverso le partecipazioni, di Libyan Investments Autorithy, Banca Centrale Libica e la Libyan Arab Foreign Bank). La finanziaria Lafico possiede il 14,8% della Retelit (società controllata dalla Telecom Italia attiva nel WiMax), il 7,5% della Juventus e il 21,7% della ditta Olcese. Tripoli, inoltre, attraverso il fondo sovrano Libyan Investment Authority possiede una partecipazione attorno al 2,01% nel capitale di Finmeccanica. L`importanza che il paese nordafricano riveste per l`Italia è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di oltre 100 imprese, prevalentemente collegate al settore petrolifero e alle infrastrutture, ai settori della meccanica, dei prodotti e della tecnologia per le costruzioni. Tra le altre c'è Iveco (gruppo Fiat) presente con una società mista ed un impianto di assemblaggio di veicoli industriali. Nel settore delle costruzioni si distinguono Impregilo, Bonatti, Garboli-Conicos, Maltauro, Ferretti Group. Altri settori sono quelli delle centrali termiche, (Enel power), impiantistica (Tecnimont, Techint, Snam Progetti, Edison, Ava, Cosmi, Chimec, Technip). Telecom è presente anche con Prysmian Cables (ex Pirelli Cavi). Nel 2008 inoltre i libici hanno formalizzato un'intesa con il ministero dell'Economia italiano che dovrebbe permettere a Tripoli di aumentare le partecipazioni in Eni (di cui già possiedono lo 0,7% del capitale) inizialmente al 5%, poi all'8%, fino a un massimo del 10%. Per Gheddafi partecipare alle decisioni della società di San Donato Milanese è importante, considerato che l'Eni da decenni estrae petrolio in Libia ed è una delle principali major petrolifere presenti nel paese.
Petrolio e gas uguale Eni Eni, in Libia dal 1959, è il primo produttore straniero nel paese, con una produzione di circa 244mila barili di petrolio equivalente al giorno. In Italia arriva anche il gas prodotto dai campi libici attraverso il gasdotto denominato GreenStream, lungo circa 520 chilometri che collega Mellitah, sulla costa libica, con Gela, in Sicilia, attraversando il Mar Mediterraneo dove raggiunge una profondità massima di 1.127 metri. L'esportazione del gas verso l'Italia è iniziata nell'ottobre del 2004. Nel 2008, Eni si è approvvigionata dalla Libia per circa 9,87 miliardi di metri cubi di gas naturale e ha avviato il potenziamento del gasdotto per consentire un aumento della capacità di trasporto da 8 a 11 miliardi di metri cubi/anno entro il 2012. La presenza di Eni in Libia risale al 1959, quando l'Agip ottenne dal governo libico la Concessione 82, localizzata nel deserto del Sahara sud-orientale, dove, nel 1965, venne scoperto il giacimento ad olio di Rimal. Nel giugno 2008 Eni e la società petrolifera di Stato Noc hanno siglato un accordo che ha esteso di 25 anni la durata dei titoli minerari della società italiana fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas. L`attività produttiva ed esplorativa di Eni in Libia è condotta nell`offshore del Mar Mediterraneo, di fronte a Tripoli, e nel deserto libico. A fine 2009 Eni era presente in 13 titoli minerari, per una superficie complessiva di circa 36.374 chilometri quadrati (18.165 chilometri in quota Eni). Gli asset in produzione e sviluppo posseduti da Eni sono stati raggruppati in sei aree contrattuali onshore e offshore.
Shopping in cambio di appalti Gheddafi ha un piano di modernizzazione della Libia. Un piano da 153 miliardi di dollari, che prevede la realizzazione d'infrastrutture, progetti urbanistici e tecnologie per sviluppare l'industria estrattiva del petrolio e del gas. L'Eni ha siglato con la società libica che gestisce il petrolio e il gas (Noc, National Oil Corporation) un accordo da 28 miliardi di euro per lo sfruttamento dei giacimenti di greggio e l'aumento della produzione di gas. Con il raddoppio del gasdotto sottomarino Mellitah, lungo 580 km, che collega la Libia con la Sicilia. Accanto agli affari, le iniziative sociali (io ti do e tu, in cambio, mi dai): l'Eni ha firmato un programma da 150 milioni di dollari con la Noc e la Gheddafi Development Foundation per il restauro di siti archeologici, interventi in campo ambientale, e la formazione di ingegneri libici, che saranno assunti dalla major del cane a sei zampe.
La torre e gli aeroporti di Impregilo Impregilo ha vinto una commessa per la costruzione di una torre di 180 metri e un albergo di 600 camere a Tripoli. E ha già realizzato diverse importanti opere pubbliche in Libia: gli aeroporti di Kufra, Benina e Misuratah, e il Parlamento a Sirte. La stessa società – sotto inchiesta a Napoli per i disastri dei rifiuti campani – costruirà tre università, più diversi alberghi e è in gara per la costruzione di un'autostrada fino all'Egitto. Gheddafi, riconoscente, ha deciso di entrare nel capitale di Impregilo. Energia, edifici, alberghi, porti, aeroporti, strade. Ma anche telecomunicazioni. Il colosso francese Alcatel – la torta va divisa – sta gestendo la modernizzazione dell'intera rete telefonica: un affare da 161 milioni di dollari, che prevede la posa di oltre 7mila km di cavi in fibra ottica. Fa parte della partita anche la società italiana Sirti, che ha una commessa di 68 milioni di dollari.
L'asse Roma-Mosca-Tripoli Gheddafi nel novembre 2008, dopo l'accordo con l'Italia, è stato in visita ufficiale a Mosca. La prima dal 1985, dai tempi dell'Urss. Per fare affari, ovviamente. Sempre nello spirito dell'ex colonia che colonizza grazie ai petrodollari. Simbolicamente, l'occupazione di Gheddafi è cominciata con una tenda da beduino piantata all'interno della cinta del Cremlino, nel giardino Taininski. Tenda che ha ospitato l'illustre ospite nel giardino che domina la Moscova, tra le costruzioni presidenziali e il palazzo riservato alle cerimonie ufficiali. Il Colonnello è stato ricevuto dal presidente (delfino di Putin) Dmitry Medvedev. Gheddafi ha offerto una base d'appoggio per le navi russe nel Mediterraneo e la disponibilità a costruire una centrale nucleare per usi pacifici (in un paese che galleggia sul petrolio) con tecnologia made in Russia. E ha fatto shopping di armamenti per almeno 2 miliardi di dollari: aerei Sukhoi 30, sistemi missilistici S300 e Tor-M1, caccia Mig-29, carri armati T-90.
Le armi italiane Il Trattato di cooperazione e amicizia del 2008 ha aperto le porte del paese nordafricano anche all'industria militare italiana, come ha raccontato di recente in una lunga inchiesta Enrico Casale su Popoli, il mensile dei gesuiti che si occupa di terzo e quarto mondo. All'art. 20 del Trattato si prevede «un forte e ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari», nonché lo sviluppo della «collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze armate», mediante lo scambio di missioni di esperti e l'espletamento di manovre congiunte. I due paesi si sono impegnati anche a definire «iniziative, sia bilaterali, sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell'immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori». «Uno degli obiettivi principali del Trattato – ha spiegato Andrea Nativi, direttore della Rivista italiana - è il contenimento dei flussi migratori che dall'Africa, attraverso la Libia, arrivano in Europa. Per il momento le nostre aziende del settore difesa hanno siglato ricchi contratti per la fornitura di mezzi necessari a questo scopo. In questo modo, la strada è stata aperta e i buoni rapporti instaurati in questi mesi serviranno per siglare nuovi e più sostanziosi contratti per la fornitura di armi e mezzi».
La Libia è un buon mercato per le armi. Secondo il rapporto 2009 pubblicato dal Sipri (Sipri Yearbook 2009), nel 2007 (ultimi dati disponibili) ha acquistato armamenti per 423 milioni di euro, il 52% in più rispetto a dieci anni prima. Ora è il quarto acquirente di armi dell'Africa settentrionale (dietro ad Algeria, Marocco e Senegal). «Tripoli - osservano i ricercatori del Sipri - sta trattando con alcuni grandi fornitori per acquistare sistemi d'arma complessi e si prevede diventi nei prossimi anni uno dei principali acquirenti di armi del continente africano». Nel Rapporto del presidente del Consiglio dei ministri sui lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento 2008 (la relazione che annualmente il governo italiano presenta al parlamento) la Libia, con 93,2 milioni di euro di fatturato, è il nono cliente dell'industria bellica italiana (nel 2007 il fatturato era di 56,7 milioni di euro).
La fetta di Finmeccanica Come ha raccontato Popoli, «Finmeccanica, la holding pubblica italiana che vanta tra le sue società alcuni dei principali produttori di armamenti al mondo, è stata una delle prime aziende a sfruttare la fine dell'embardo e dell'isolamento di Tripoli. Il primo colpo l'ha messo a segno già nel 2006 firmando la vendita di dieci elicotteri A-109E Power per un ammontare di 80 milioni di euro. Gli A-109E Power sono elicotteri prodotti a partire dagli anni Novanta dall'AgustaWestland, società del Gruppo. Parallelamente a questo contratto, sempre nel 2006, Finmeccanica e AgustaWestland hanno siglato con Tripoli un accordo per la creazione di una joint-venture denominata Libyan Italian Advanced Tecnology Company, posseduta al 50% dalla Libyan Company for Aviation Industry, al 25% da Finmeccanica e al 25% da AgustaWestland. La società, che ha sede a Tripoli, ha come primo obiettivo quello di rimettere in efficienza le flotte libiche di elicotteri e aerei». Questa intesa non è stata l'unica. «Il 18 gennaio 2008 Alenia Aeronautica, un'altra società del Gruppo, ha venduto al ministero dell'Interno libico un velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP Surveyor. Il contratto, del valore di 31 milioni di euro, include anche l'addestramento dei piloti e degli operatori di sistema, supporto logistico e parti di ricambio. Finmeccanica e Libyan Investment Authority hanno stretto ulteriormente i loro rapporti il 28 luglio 2009 con un nuovo accordo. Si tratta di un'intesa generale attraverso la quale la holding di piazza Montegrappa e il fondo sovrano si impegnano a creare una nuova joint-venture (con capitale di 270 milioni di euro) attraverso la quale gestire gli investimenti industriali e commerciali in Libia, ma anche in altri Paesi africani. «Abbiamo firmato un accordo strategico di ampia portata che coinvolge tutti i nostri settori - ha dichiarato nel corso della cerimonia della firma Pier Francesco Guarguaglini -: elicotteri, energia, elettronica, sicurezza e aerospazio. Non solo, l'accordo stabilisce il concetto che è possibile mettere in campo investimenti anche fuori dalla Libia, sia in Africa sia in Medio Oriente». Mercato che per Finmeccanica vale 15 miliardi di euro. Il primo frutto è stato un nuovo accordo siglato da Selex sistemi integrati, società controllata da Finmeccanica (guidata da Marina Grossi, moglie dello stesso Guarguaglini, finita nei mesi scorsi al centro delle cronache giudiziarie per gli appalti Enav) e dal governo libico. Il contratto, del valore di 300 milioni di euro, prevede la creazione di un sistema di «protezione e sicurezza» dei confini. Si tratta di una sorta di barriera elettronica di sensori che trasmettono dati a centri di comando che li elaborano e li mettono a disposizione del personale delle forze dell'ordine o delle forze armate. Un sistema che serve per contenere i flussi degli immigrati, ma anche il controllo tout court dei confini meridionali con Ciad, Sudan e Niger.