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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 18:15.

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Zine El-Abidine Ben AliZine El-Abidine Ben Ali

Il 17 dicembre 2010, nella città tunisina di Sidi Bouzid, il venditore ambulante di verdure Mohamed Bouazizi si dà fuoco in piazza. Morirà il 4 gennaio. Dal suo gesto scaturisce la sollevazione popolare in Tunisia, la "Rivoluzione dei gelsomini", che ha innescato una serie di contraccolpi a catena che coinvolgono molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. I dimostranti chiedono la fine della dittatura di Zine El-Abidine Ben Ali e manifestano contro la corruzione di cui è intrisa la Tunisia, contro la disoccupazione endemica, contro l'aumento dei prezzi e per una maggiore libertà, sistematicamente conculcata da un regime repressivo durato 23 anni. Lo scontro si radicalizza (i morti saranno in tutto circa ottanta). Il 14 gennaio Ben Ali è costretto a scappare in Arabia Saudita.

L'atteggiamento dell'esercito ha avuto un ruolo di primo piano nell'accelerare la frana del regime. Il primo ministro Mohamed Ghannouci, cresciuto nei ranghi benalisti, cerca di guidare la transizione, impasta e rimpasta a più riprese il proprio governo, ma manca dell'autorevolezza per imporre una road map per la ricostruzione delle istituzioni del paese. Il 25 febbraio centomila tunisini scendono in piazza per chiedere le dimissioni di Ghannouci, che il 27 lascia l'incarico. Lo sostituisce Béji Caïd Essebsi, un altro veterano della politica tunisina, già a più riprese ministro nei governi guidati dal primo presidente del paese, Habib Bourguiba.

Vengono indette per il 24 luglio elezioni per un'Assemblea costituente. Il 7 marzo il nuovo governo ad interim, il terzo dalla caduta di Ben Ali, annuncia anche un nuovo passo importante: la dissoluzione della polizia segreta. Il 13 aprile il ministro della Giustizia, Lazhar Karoui Chebbi, annuncia che Ben Ali, la sua famiglia e alcuni esponenti dell'inner circle dell'ex presidente dovranno rispondere di 44 capi di imputazione, tra cui cospirazione contro lo Stato, omicidio volontario e traffico di droga. Nella prima settimana di maggio scoppiano violenti moti antigovernativi, al cui esplodere non è estranea un'affermazione dell'ex ministro degli Interni Farhat Rahji, secondo cui l'esercito starebbe organizzando un golpe da attuare nel caso di vittoria dei partiti confessionali nelle elezioni del 24 luglio. A seguito dei disordini, viene indetto il coprifuoco nella capitale dall'8 al 18 maggio. In questi dieci giorni vengono effettuati 1.400 arresti. Tra i fermati, otto persone sono imputate di omicidio e alcune decine di aggressioni e violenze. Il 17 maggio, presso Rouhia, si registra uno scontro a fuoco tra l'esercito e un gruppuscolo di uomini armati che sarebbero affiliati ad al Qaida nel Maghreb Islamico.

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