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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 18:14.

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Ali Abdullah SalehAli Abdullah Saleh

Durante tutto il mese di febbraio decine di migliaia di persone animano ricorrenti manifestazioni antigovernative nello Yemen, uno degli Stati più poveri della regione. Nella capitale Sana'a gli studenti universitari sono particolarmente attivi nelle proteste, che chiedono un passo indietro al presidente Ali Abdullah Saleh, al potere dal 1978, prima nel solo Yemen del Nord e poi nel paese riunificato.

Il presidente promette che non si ricandiderà nelle elezioni del 2013, ma esclude di lasciare il suo posto prima di allora. Negli ultimi giorni di febbraio violenti scontri oppongono chi protesta e squadracce di picchiatori "controrivoluzionari" che molti pensano siano stati assoldati e armati dal governo. Si contano più di dieci vittime. Numerosi deputati del partito di governo lasciano il Parlamento per protesta contro gli eccessi nella repressione delle violenze. In occasione della preghiera del venerdì, il 25 febbraio decine di migliaia di persone si radunano in strada nella capitale San'a nella più grande manifestazione dall'inizio delle proteste nel paese arabo. Il 4 marzo un'altra grande manifestazione chiede le dimissioni del presidente. Intanto nei primi giorni di marzo anche alcuni capi tribali si sfilano dalla loro alleanza con il regime e si registra la morte di alcuni soldati yemeniti in un attacco attribuito ad al Qaida.

Anche un gruppo che si batte per la secessione del Sud del paese si unisce alle proteste, ma con obiettivi che nulla hanno a che fare con quelli degli studenti e degli altri oppositori. Nel corso del mese di marzo ci sono ancora scontri e decine di vittime e centinaia di feriti tra i dimostranti. Spezzoni dell'esercito si uniscono alle proteste e il paese scivola verso la guerra civile. Saleh vede sgretolarsi il suo potere e il 22 marzo fa intravedere la possibilità di un suo passo indietro fra circa un anno e di un graduale passaggio di poteri, ma la piazza e le opposizioni rifiutano l'apertura del presidente. Nei giorni successivi la tensione rimane altissima. Intanto negli ultimi giorni di marzo gli Stati Uniti iniziano a "scaricare" Saleh, che era considerato un prezioso alleato dell'Occidente in funzione anti-qaedista. Nei primi giorni di aprile la posizione di Washington nei confronti del presidente yemenita prende una forma più chiara: gli Stati Uniti non ritengono che sia in grado di attuare le necessarie riforme e che quindi sia necessario un suo immediato passo indietro.

Il 4 aprile nella località meridionale di Taiz muoiono almeno quindici manifestanti (decine i feriti), uccisi dalle forze di sicurezza e da cecchini senza uniforme che hanno aperto il fuoco sulla folla. Nei giorni successivi, i ministri degli Esteri degli Stati del Golfo propongono un negoziato, da tenersi in Arabia Saudita, in cui si prepari il graduale passaggio di consegne tra Saleh e un nuovo governo. Il presidente yemenita si dice disponibile a un'ipotesi di transizione, ma la piazza rifiuta ogni piano che non costringa a immediate dimissioni Saleh e che preveda una sua immunità giudiziaria. La seconda metà di aprile e la prima metà di maggio si trascinano in un tiramolla sul testo che i negoziatori propongono a Saleh, in cui si prevede una sua uscita di scena accompagnata da garanzie di immunità. Intanto nel paese è uno stillicidio di proteste, manifestazioni, disordini, scontri con la polizia. Ancora morti e feriti. Per il 18 maggio era prevista la definitiva firma del presidente sul documento che avrebbe decretato il suo abbandono della carica e la formazione di un governo di unità nazionale. Ma, ancora una volta, Saleh si tira indietro all'ultimo minuto.

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