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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2011 alle ore 16:53.
Anticomunista ossessivo, nazionalista venato di razzismo, sognatore di una nuova grandezza paraclassica per la Grecia, Georgios Papadopoulos è l'uomo di punta nel colpo di Stato del 21 aprile 1967 e nel conseguente "regime dei colonnelli". Con il golpe militare che allinea la Grecia ad altri due regimi autoritari dell'Europa meridionale – quello della Spagna franchista e quello del Portogallo salazarista, entrambi già nella loro fase crepuscolare – lo Stato ellenico vive una parentesi nera. Censura, arresti politici, torture, repressione diffusa sono la cifra di governo del regime retto da Papadopoulos. Il dittatore stordisce i suoi sudditi con discorsi che, con più di una goffaggine, tentano di mettersi nella scia della migliore retorica classica. Saranno poi riuniti in una silloge di dimensioni monstre intitolata "Il nostro credo".
Il dittatore trova però sulla strada un avversario hardliner che vuole essere ancora più colonnello di lui, Dimitrios Ioannides, il quale lo rimpiazza personalmente alla fine del 1973. Papadopoulos è ridotto agli arresti domiciliari. È soltanto l'inizio di una lunga avventura da recluso. Nel 1974 la democrazia trionfa e Papadopoulos e i suoi ex sodali, compreso Ioannides, finiscono sotto processo. Il leader del colpo di Stato del 1967 riceve una condanna a morte, poi commutata in ergastolo. Papadopoulos inizia la sua lunga permanenza nel carcere di Korydallos. Nel corso degli anni non rinnegherà mai il suo passato. L'uomo che aveva sdegnosamente detto di non riconoscere la corte che lo giudicava, rimane fino all'ultimo, rocciosamente, sulle sue posizioni di sempre. Contrariamente a molti suoi colleghi, non chiede clemenza e grazia. Gli ultimi tre anni di vita li passa fuori dal carcere, ma sotto sorveglianza dentro un ospedale in cui lo curano per un cancro. Il 27 giugno del 1999, poco dopo aver compiuto ottant'anni, Papadopoulos, ormai consunto dalla malattia, muore.