Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2011 alle ore 09:05. L'ultima modifica è del 27 febbraio 2011 alle ore 14:52.
Nel suo libro «Il Mediterraneo», lo storico Fernand Braudel immagina chiunque di noi, in un pomeriggio d'estate, guardare la costa del mare più bello del mondo e fantasticare «Questo stesso panorama guardava Odisseo!». Poi, passo passo, il saggio delle «Annales» smonta la nostra fantasia: gli agrumi arrivarono nella macchia mediterranea con gli arabi, i cipressi dalla Persia, gli eucalipti dall'Australia e tante altre specie che consideriamo «natura», parte del nostro mondo da sempre, sono invece «storia» e l'eroe Odisseo non potè mai vederle.
Il gioco di Braudel serve a capire come facilmente il nostro sguardo si deformi, dal presente al passato. E chi guarda oggi le rivolte che incendiano le sponde arabe del Mediterraneo soffre, spesso, della stessa deformazione. Guarda il presente, cerca di identificare il futuro, si fida dei riferimenti del passato e finisce, inesorabilmente, beffato dalla realtà. Così coloro che non riescono a staccarsi dai paradigmi della Guerra Fredda, quando i regimi arabi erano contesi da Washington e Mosca, armati uno contro l'altro, e tutti contro Israele. Si ostinano a ragionare con lo sguardo al passato, indicando cipressi e eucalipti e aranci che non esistevano ancora. La «sicurezza» che i despoti, dal Cairo a Tripoli a Tunisi ad Algeri, hanno garantito era effimera, utile a una fase come sapeva bene l'astuto Henry Kissinger, ma nessuna fase in diplomazia è eterna.
Lo stesso errore compiono i reduci del XX secolo, che vedono fondamentalisti in agguato ovunque e rimpiangono i «raiss» del panarabismo di Nasser, certi che, senza di loro, avremo Osama bin Laden alle porte.
Nel febbraio del 1982 i Fratelli Musulmani, il movimento islamista fondato in Egitto nel 1928 da Hassan al-Banna e diffuso ormai in molti paesi, diventarono davvero un problema per il leader siriano Hafez al Assad, musulmano della setta alawita. Assad, padre di Bashar l'attuale presidente nel sistema dinastico fallito in Egitto e Libia, non rimase troppo a pensare: le sue truppe circondarono la città di Hama, roccaforte dei Fratelli, e bombardarono per giorni, lasciando sotto le macerie da venti a quarantamila morti, nella peggiore strage che un leader arabo abbia inflitto alla propria popolazione nel '900. In occidente non si ha memoria del massacro, ma così quei regimi hanno trattato i popoli: quanto poteva durare?
Per capire la rivolta araba, e provare a delineare una reazione italiana, europea, americana - non oso neppure ipotizzare una comune reazione «occidentale» - lo sguardo della Guerra Fredda e lo sguardo seguito all'11 settembre del 2001 non bastano. Come gli alberi nuovi portati dalla storia che Odisseo non poteva vedere sono oggi inestricabile sviluppo della macchia mediterranea, nuovi soggetti sono cresciuti, nuovi bisogni, culture, identità.
I giovani della piazza araba vivono Nasser e l'attacco a Suez del 1956 come i nostri ragazzi vedono Garibaldi, una gloria magari, ma lontana. Non è l'odio per gli inglesi imperiali a muoverli, è l'alienazione per un lavoro che manca, l'incredulità nel sapere che paesi altrettanto poveri, i coreani, i brasiliani, i cinesi, gli indiani, diventano d'improvviso potenze, mentre la sola proposta per i teenager del Cairo, Tunisi e Tripoli resta il bivio tra corruzione totalitaria di Mubarak e Gheddafi e odio salafita di al Qaeda. Possibile? No, impossibile.
Il nostro Domenicale ragiona oggi proprio di questi temi, la Storia è tornata e ci ha preso di sorpresa con i suoi nuovi boschi. Moisés Naím ragiona dell'impatto tecnologico, il web, Twitter, Facebook sulla rivolta, ma arguisce che le radici son più profonde, drammatiche e ricche di speranze, sia pur fragili. C'è chi si è chiesto come mai i regimi arabi siano stati travolti così di sorpresa. Una domanda che ha scarso senso, da anni si parla e si discute nel mondo di Prima guerra globale. Dalla fine della Guerra Fredda, con il ritorno di Cina e India potenze, la globalizzazione, la crisi del lavoro indotta dalla tecnologia, le difficoltà finanziarie del 2007-2008, e naturalmente lo scontro tra democrazie e fondamentalismo islamico a New York, Londra, Madrid, Kabul e Baghdad - passando per Teheran - il mondo ricerca affannosamente equilibrio.
Nessun popolo, ma ancor più, nessun individuo – che ormai non si parla più di «masse» ma di «individui» – accetta per sé un destino eterno di miseria e oppressione. Discettiamo dei profeti del XIX e XX secolo, chi invoca Marx, chi Keynes, chi Fanon e chi Kennan, ma i ragazzi della piazza Tahrir han seguito un professore di Boston, Gene Sharp, le cui teorie di protesta nonviolenta, sperimentate a Belgrado contro Milosevic, sono poi arrivate in Nord Africa. Il '900 ci aveva abituato a rivoluzione leniniste, avanguardia, partito, colpo di stato. Assistiamo a rivolte da 1848, quando il 12 gennaio da Palermo le barricate spontaneamente insorsero su tutto il continente. È tornata la spontaneità, son finiti i bolscevichi.
Mentre scriviamo Tripoli è ancora divisa, casa per casa, tra i miliziani e i mercenari di Gheddafi e del suo grottesco clan, e i rivoltosi che già controllano parte del paese e mandano segnali all'Occidente, ai governi, alle aziende: non lasciateci soli. Gheddafi, con le stragi e i discorsi feroci, ha dato ragione al presidente Reagan, che lo definiva «mad dog», cane rabbioso. Non vale la pena di citare i troppi, in primis l'Onu capace di affidare alla Libia la Commissione diritti umani e balbuziente sulle sanzioni, che ne hanno coperto le malefatte: un giorno varrà semmai la pena di raccogliere i nomi dei pochissimi che si esposero contro di lui, ottenendo in cambio irrisioni e malignità. Più importante capire adesso cosa fare. L'Italia s'è mossa poco e male, baciando la mano a Gheddafi sino all'ultimo e non spingendo sull'Europa per una comune reazione. L'Europa ha confermato il male che si dice della sua diplomazia, guidata dall'inetta Lady Ashton, e nessuno l'ha vista in campo dalla rivolta in Tunisia in avanti. Il presidente Obama sta provando, disperatamente, a «fare la cosa giusta», da solo poco può, ma la Casa Bianca ha almeno recuperato qualche punto morale. Putin fa i calcoli del prezzo del gas che può venirgli comodo, la Cina si muove con discrezione: se vorrà essere potenza globale non potrà restare silenziosa dietro la Grande Muraglia troppo a lungo.
Chi guarda alle foreste del passato parla di fondamentalismo, rischio guerra tra sunniti e sciiti, Iran che si rafforza, pericoli a venire per Israele, ondate migratorie, al Qaeda che dalla Somalia passa in Egitto, nuovi fermenti in Iraq e Afghanistan. Ciascuno di questi pericoli è reale e ben presente già prima delle rivolte: quel che sfugge alla setta dello status quo è che Mubarak, Gheddafi, ben Alì, come gli ayatollah a Teheran e i talebani a Kabul non diminuivano l'allarme, no, ingigantivano il fondamentalismo ogni giorno, da Hamas a Hezbollah.
La moneta del fato arabo sta ancora volteggiando in aria e può ricadere sulla faccia dello sviluppo, della stabilità e di una - certo tumultuosa - evoluzione verso la democrazia islamica, vedi Turchia o Indonesia. Oppure può cadere sul verso dell'intolleranza, dell'odio, della guerra. Europei e americani possono stare a guardare, scuotendo la testa come Don Abbondio, oppure darsi da fare per determinare l'esito: programmi economici di collaborazione e sviluppo, contrafforti militari dove occorra, emigrazione controllata, riaprire alla Turchia una corsia razionale verso l'Europa, scambi culturali come le borse di studio Fulbright americane per l'Europa sconfitta, nuove politiche energetiche. Ci dicono esista uno scambio universitario Erasmus con gli atenei arabi: bene lo si faccia funzionare subito. L'Italia, da Enrico Mattei, ha in questi paesi tradizione, storia non rapace, antichi legami di lavoro, possiamo essere leader. La paura, l'egoismo, il rinchiuderci a riccio davanti al futuro solo perché «può andare male» ci preclude il lavoro possibile perché la rivolta in Arabia finisca «bene». Non provarci non è solo immorale e colpevole davanti alla storia, è gettare al vento i nostri interessi nazionali, economici, diplomatici.
L'intervento più formidabile sulla rivolta araba l'ho letto sul «Jerusalem Post», a voce di Natan Sharansky, l'ex dissidente sovietico detenuto nel gulag, poi politico in Israele e considerato «falco». Ai suoi concittadini spaventati che la caduta di Mubarak metta a rischio Israele, Sharansky parla da profeta: «Son preoccupato dagli eventi in Egitto ma ne vedo anche le opportunità. Il patto secolare tra mondo libero e dittatori arabi per tenere buona la piazza araba s'è finalmente rotto. Io credo nel potere della democrazia e nel desiderio di ogni popolo di vivere in libertà. E a chi mi dice che la libertà ci regala Hamas o Hezbollah rispondo che il fondamentalismo islamico è cresciuto sotto i dittatori arabi. I dissidenti arabi democratici lo dicono da anni, ora lo ripetono milioni di arabi e dobbiamo ascoltarli. Sarà un bene anche per Israele? Dipende se i leader del mondo libero organizzeranno programmi di assistenza economica legati alle riforme democratiche. I popoli del Medio Oriente hanno parlato e se noi occidentali non li aiuteremo, allora sì che ci troveremo davanti regimi fondamentalisti». Chi è stato in campo di concentramento non dimentica il fascino meraviglioso della libertà per gli esseri umani, tutti, sempre, ovunque.