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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2011 alle ore 09:03.

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Perché le rivolte in Nord Africa segnano la grande svolta della Cina sul fronte della politica esteraPerché le rivolte in Nord Africa segnano la grande svolta della Cina sul fronte della politica estera

Paradossi della Storia. E paradossi del secolo dell'Asia, o meglio del secolo cinese. Di un mondo il cui centro gravitazionale è oggi nell'Oceano Pacifico. Ancora una volta il Mar Mediterraneo si riappropria invece di un ruolo geostrategico, foriero di una svolta epocale che in pochi hanno previsto, in Occidente come in Oriente. E non solo per le future potenziali democrazie del Maghreb. Proprio dalle sponde infiammate dalla Rivolta araba del 2011, arriva anche ai Signori di Pechino, nuovi Signori del globo, l'impulso per decisioni non più rinviabili sui fronti interno e, soprattutto, estero. Vale a dire l'ingresso della Cina come protagonista politico-diplomatico non più defilato sulla scena mondiale: il ruolo di «responsible stakeholder», di azionista responsabile, auspicato già nel 2005 per la potenza asiatica che emergeva prepotentemente dall'allora vice segretario di Stato Usa Robert Zoellick. Un passo inevitabile ormai anche a tutela di un espansionismo economico che copre tutti i punti cardinali: dal Sudamerica all'Europa all'Africa a nord e a sud del Sahara.

Molto si è scritto sulle fibrillazioni censorie del partito e del governo cinesi a fronte di un possibile contagio della "Rivoluzione dei gelsomini" che corre silenzioso sulle autostrade di internet, e nei blog dei grandi portali, da Baidu al social network Renren.com. In realtà, la maggior parte degli analisti esclude una destabilizzazione a breve della scena politica cinese come conseguenza delle rivoluzioni del Maghreb e delle manifestazioni negli emirati del Golfo Persico, dal Bahrein all'Oman, sull'onda delle rivendicazioni di democrazia, libertà dai dittatori e dignità dell'individuo. Diversa è più complessa appare la realtà oltre la Grande Muraglia, dove il partito al potere ha garantito per sessant'anni la propria sopravvivenza (la più lunga della storia delle dinastie succedutesi in terra cinese) grazie a un patto stretto con la popolazione: più ricchezza contro stabilità. E dove in ogni caso ogni anno già esplodono dalle 80 alle 90mila proteste di massa, come testimonia l'attivista dei diritti umani Teng Biao. Inevitabilmente una rivoluzione delle aspettative politiche crescenti in Cina è già in corso, e prima o poi, non potrà che portare a una maggiore libertà. Ma sicuramente non dall'oggi al domani.

La vera minaccia che arriva dal Mediterraneo in fiamme alla stabilità cinese potrebbe invece assumere il volto minaccioso di un'inflazione galoppante trainata dai prezzi delle materie prime energetiche tornati a livelli record e da quelli delle commodities agricole, strategiche le prime per l'inarrestabile fame di petrolio e gas dell'economia del gigante asiatico e ancor più "sensibili" le seconde in un paese la cui spesa media per alimentari delle famiglie incide per il 30%. L'incubo inflattivo è stato già debellato nel recente passato, grazie anche a tre aumenti dei tassi d'interesse da ottobre a questa parte. Ma oggi i prezzi inesorabilmente rialzano la testa (4,9% a gennaio), andando a cumularsi all'aumento dei salari a partire da grandi, città come Pechino e Shanghai, e a una difficile gestione della massa monetaria in un paese impegnato nell'evoluzione da un economia trainata dall'export a un modello basato sul volano della domanda interna (investimenti +consumi). Una reale incognita per quel che viene chiamato il "Wen Jiabao put", l'impegno del capo del governo cinese a garantire una crescita alta fino al 2012, anno in cui è programmato il ricambio, anche generazionale, ai vertici del partito e quindi della seconda economia mondiale. Ci arriveranno il severo presidente Hu Jintao e il tecnocrate premier Wen? Dipenderà anche dagli sviluppi nel Maghreb e nell'area medio-orientale, da quanto inarrestabile sarà il contagio libertario, dalla lunghezza delle crisi e dei processi di transizione democratica.

E qui entra in gioco, la grande svolta sul fronte estero. Gigante economico, e ormai politico, a livello mondiale, la Cina finora aveva preferito non esporsi nel dispiegamento delle sue Forze armate al di fuori dell'Asia orientale. Ciò all'insegna della tradizionale politica di non ingerenza negli affari interni di altri paesi e per non ingenerare timori sulle ambizioni militari dell'ex Celeste Impero, sempre più spesso evocate da analisti e cancellerie occidentali, americani e giapponesi in testa. La crisi libica può essere considerata un punto e a capo. L'operazione di evacuazione dei circa 30mila cinesi presenti in Libia al seguito di almeno 27 aziende dell'Impero di mezzo, con il contestuale impiego di aerei da trasporto partiti dal Xinjiang e l'appoggio della nave Xuzhou trasferita dal Golfo di Aden (dove dal 2008 è impegnata in operazioni di pattugliamento anti-pirateria) alla costa nord-africana, ha un significato simbolico che va ben al di là del "salvataggio" dei connazionali, quale tributo domestico a un crescente nazionalismo cui i governanti di Pechino non lesinano attenzioni.

Sono stati gli stessi media cinesi a definire la più grande operazione della storia della Repubblica popolare a tutela di cittadini cinesi in aree lontane un segno dell'emergere del paese come "grande potenza responsabile", attenta agli interessi di stabilità domestica ma anche a quanto le viene richiesto oggi dal resto del mondo. E, a conferma, è giunto il 26 febbraio anche il voto a favore della risoluzione Onu per l'imposizione di sanzioni a Gheddafi e la richiesta di un'indagine internazionale per i crimini di guerra commessi dal dittatore libico. Un atto visto con favore in Occidente ma anche oltre la Grande Muraglia considerato che va a colpire chi ha messo a repentaglio le vite di cittadini cinesi in terra straniera. Resta ora da vedere come Pechino gestirà di fronte al mondo le eventuali future proteste di massa dei tibetani o della minoranza islamica degli uiguri.

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