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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2011 alle ore 08:01.

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di Roberto Bongiorni
BENGASI - L'anziano professor K. è una mosca bianca. Si guarda intorno con sospetto, ci invita a seguirlo in una delle aule vuote del tribunale e poi ci rende partecipi della sua verità: «Dite al mondo che abbiamo vissuto un mese di libertà. Ed è stato molto più intenso degli ultimi, 42 lunghi anni. È stato bellissimo respirare l'uguaglianza. Ma il sogno è tramontato». Gli attivisti e avvocati che girano per i corridoi del vecchio edificio coloniale italiano lo guardano in tralice, con diffidenza. La sua opinione cozza contro quella di tutti gli altri.

Mohamed Samel, 56 anni, membro del comitato dei saggi e leader della tribù Twagir, non ha dubbi: «Stiamo tenendo – sottolinea - ma poi lanceremo la controffensiva. Combatteremo fino all'ultima goccia di sangue». «Lotteremo finché non cadrà Tripoli», precisa Ibrahim Farjan, 54 anni, membro del comitato della rivoluzione. Prima preoccupata per le sorti della rivolta, Iman Bughaigis, addetta dell'ufficio stampa per gli stranieri, in questi giorni deserto, è ora fiduciosa: «Adesso abbiamo anche due caccia e alcuni carri armati. Possiamo farcela, purché l'Onu acceleri la decisione sulla no-fly zone» .

La verità, probabilmente, sta nel mezzo. Al di là della propaganda, le forze di Gheddafi (fino alle 23 di ieri) non sono riuscite a sfondare la roccaforte di Ajdabiya, 160 km da Bengasi. Ma potrebbero farlo nei prossimi giorni. Il divario tra l'anarchica e male equipaggiata armata dei rivoluzionari e le milizie di Gheddafi è ancora grande.

La giornata inizia nel peggiore dei modi. Un boato lontano risveglia la città. Questa volta sono riusciti - o forse hanno voluto – colpire l'obiettivo: la pista dell'aeroporto di Benina, a 10 km dal centro. Silenzio, preoccupazione, volti tesi. Due ore dopo un militare sale sul palco della grande piazza e mostra un rottame di un aereo militare. «Ne abbiamo abbattuti due. Gheddafi, ascoltaci! Bengasi distruggerà tutti i tuoi aerei!». La folla esplode in urla di gioia. Poi le raffiche di contraerea. Il traffico impazzito, i clacson che suonano, le bandiere che sventolano. Vengono distribuiti dolci. Oggi la rivoluzione compie un mese. «Siamo come un bambino, che cresce. Oggi la Cirenaica, domani Tripoli. Dobbiamo solo guarire da questo aggressivo virus: il regime», ci spiega un anziano in doppiopetto sgualcito.

Nel mentre arrivano le immagini da Ajdabiya. Gli insorti starebbero tenendo le posizioni. Diversi militari ce lo confermano. Sembrano credibili. La battaglia di Ajdabiya è la più violenta. Per la prima volta gli insorti hanno messo in campo i loro vecchi carri armati sovietici. Impossibile avere conferme ufficiali, ma tutti assicurano che anche oggi i due caccia in mano ai ribelli hanno colpito gli obiettivi nemici. «Abbiamo arrestato diversi mercenari ad Ajdabiya», ci racconta un ufficiale. Pochi minuti più tardi, la via del tribunale è presidiata dalle forze speciali. Sono scontrosi e diffidenti. D'improvviso, sotto i nostri occhi, dalla piccola porta escono, in fila, 15 giovani subsahariani. Di corsa, vengono spintonati su un furgone. «In fretta, in fretta», urla il capitano. Troppo tardi, la folla nella piazza se ne accorge: qualcuno riesce ad avventarsi contro i mercenari per linciarli. I militari sparano in aria. La folla ruggisce di rabbia.

La sera la tv di stato diffonde la notizia. Misurata, la terza città della Libia tra Tripoli e la Cirenaica, è caduta. I ribelli negano, ma la folla è preoccupata. «Anche Ajdabiya è caduta», riprende la tv. «Non credete alle menzogne del diavolo. Se vi dicessero che hanno occupato gli Usa ci credereste? Noi stiamo vincendo», sbraita dal suo megafono il vecchio Khaled, la voce della piazza. Poche ore dopo il discorso di Gheddafi in tv. «La decisione è stata presa. Preparatevi. Arriveremo stanotte. Cacceremo i traditori da Bengasi. Chi si arrenderà deponendo le armi sarà salvato. Per gli altri non ci sarà pietà».

Cosa credere? E a chi credere? Si domandano i più pessimisti. Poi guardano le ambulanze, mai così numerose, che a sirene spiegate trasportano i feriti più gravi negli ospedali. In un palazzina attigua, 50 donne confezionano le razioni per il fronte. Una di loro piange in silenzio, senza tuttavia cessare di farcire i sandwich. «Ha già perso un figlio a Benjawad», ci spiega la responsabile. «Teme che su quell'ambulanza ci possa essere il suo Abdel, ha solo 18 anni». È buio. L'auto di Osama elFitory sfreccia accanto al grande manifesto appeso venti giorni fa, quando la caduta di Tripoli sembrava questione di pochi giorni. La grande scritta "No military intervention, libyans can do it alone" sembra appartenere a un lontano passato. «Abbiamo assaggiato il sapore della libertà – dice Osama, 28 anni - tornare indietro è impensabile». Lo stereo dell'auto diffonde al massimo volume le parole del celebre rapper Shiba: «Gheddafi ci hai costretto a tenere la bocca chiusa per 42 anni. Ora è il popolo che parla. Sei finito».

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