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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2011 alle ore 20:20.

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Cantiere in BangladeshCantiere in Bangladesh

«L'avversità è grande, ma l'uomo è più grande dell'avversità». E' un verso di Rabindranath Tagore (1861-1941, Nobel per la letteratura nel 1913), scrittore e mistico indiano profondamente legato al Bangladesh. Quel verso suona più come un'invocazione, in un paese dove l'avversità continua a superare l'uomo.

Funestato da cicliche calamità, ai vertici degli indici di corruzione e instabilità, il Bangladesh è il paese più densamente popolato del pianeta (se si escludono il Principato di Monaco, Singapore e Malta): circa 156 milioni di persone su 144.000 kmq (circa tre volte e mezzo la Svizzera). E' anche uno dei più poveri, con un reddito medio pro-capite di 1500 dollari, dove il 40% degli abitanti vive con meno di un dollaro il giorno. Negli ultimi anni la crescita si era stabilizzata sul 6%, illudendo che la povertà sarebbe stata sconfitta entro il 2015. Ma ancora una volta l'avversità, incarnata nella crisi economica globale, ha fatto svanire la speranza: le principali fonti di reddito, l'industria tessile e le rimesse dei lavoratori all'estero, dipendono dall'andamento dei mercati occidentali.
Il Bangladesh è un laboratorio di economie parallele. Le strade di Dhaka, la capitale, sono ingorgate da 600.000 risciò a pedali dal cui moto dipendono circa tre milioni di persone (la famiglia media è di cinque componenti): i conducenti più resistenti e fortunati possono guadagnare sino 300 taka il giorno, tre euro e venti centesimi.

Ma l'economia diviene davvero un fenomeno surreale quando si manifesta nello scenario di un altrove reale. Dove si materializzano i romanzi di Amitav Ghosh. Il Bangladesh è come il suo "Paese delle Maree", un immenso delta che s'incastra nel Golfo del Bengala. E' qui, poco meno di 300 chilometri a sud di Dhaka e 20 a nord Chittagong, seconda città del paese e porto principale, che si trovano i cantieri di demolizioni navali di Sitakundu. Sono conosciuti come "il mattatoio delle navi", immortalato nel reportage fotografico di Sebastiao Salgado.
Oltre la linea segnata dalla bassa marea sono allineate decine di navi di ogni tipo e stazza, posate sui bassi fondali, le ancore in bando. Alcune sono già sezionate, tagliate a compartimenti. Compongono un'immagine postatomica. Sembrano materializzare il crollo della civiltà, la decadenza, la vacuità. I bassifondi scivolano in una larghissima spiaggia che ormai ha modificato la sua composizione geologica. E' una nuova materia, una miscela di sabbia, fango e nafta, una specie di tappeto elastico in cui improvvisamente si sprofonda. Sulla spiaggia annerita, dove il terreno si solidifica, sono sparsi i giganteschi pezzi estratti dalle navi. Plance, ancore, turbine, timoni, catene. Addirittura intere sezioni che sono rovesciate come immensi quarti di bue. Tra i pezzi formicolano uomini che li smontano, li divorano: è un processo quasi entomologico, che ha per unico suono il sibilo delle fiamme ossidriche e il gracchiare dei corvi. E' la materializzazione in carne e metallo del concetto di entropia. Ci sono anche ragazzi, alcuni poco più che bambini, al lavoro. Ma qui l'alternativa può essere molto peggiore. In paesi come questo, le regole morali si disintegrano e trasformano come le navi. A pochi chilometri, nei campi dei rifugiati Rohingya, musulmani profughi dalla Birmania, ci sono donne che hanno venduto un figlio per meno di dieci euro.

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