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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2011 alle ore 06:39.

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ISTANBUL. Dal nostro inviato
Cosa si può chiedere di più alla Turchia per entrare in Europa? Me lo domando guardando la movida notturna di Istiklal Caddesi, via di shopping e discoteche, e scorrendo le cifre di un'economia che cresce a ritmi cinesi, del 9% l'anno. Forse evitare di intercettare i telefoni dei giornalisti stranieri dove una voce femminile, in un italiano stentato, diventa improvvisamente il terzo incomodo al cellulare. Ma anche questo, si vede, fa parte del soft power della sedicesima economia mondiale con un Pil di 730 miliardi di dollari, nella sala d'attesa dell'Unione, che con qualche acrobazia e una certa astuzia combina felicemente diplomazia, religione e affari.
Con le rivoluzioni nel mondo arabo si fa strada il modello turco: un Governo musulmano conservatore capace di assicurare transizione democratica, progresso sociale ed economico. «L'Akp di Erdogan è un partito che può somigliarci», diceva nel pieno della rivolta contro Mubarak Rashad Bayoumi, uno dei capi dei Fratelli musulmani, una convinzione sostenuta dalla proverbiale maestria tattica degli Ikhwan che al Cairo, pragmaticamente, hanno evitato di sfidare l'esercito.
Ma quella di Ankara è un'esperienza esportabile? «Non c'è un modello turco da imporre», afferma Ipek Altinbasak, che insegna alla Facoltà di economia dell'Università Bahcesehi. «Anche il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, ha la stessa opinione: però la Turchia può essere una fonte di ispirazione. Il nostro è uno Stato laico con un Governo a maggioranza musulmana, una differenza sostanziale con altri Paesi della regione. L'Egitto, per esempio, ha una costituzione che fa esplicito riferimento ai principi della sharia, la legge coranica».
La diversità si coglie seguendo la campagna per le elezioni del 12 giugno di Egemen Bagis, ministro per gli Affari europei. Dietro al podio, a destra, c'è il ritratto del premier Erdogan, a sinistra quello di Ataturk, il fondatore della repubblica secolare: «L'Akp è un partito democratico conservatore, noi guardiamo alla religione come a un fenomeno individuale. Il ruolo del Governo è quello di assicurare a ogni cittadino il diritto di praticare la sua fede».
In Europa possono apparire dichiarazioni scontate, non in Medio Oriente: «La parola Islam non compare mai nella costituzione», ricorda l'ex ambasciatore Carlo Marsili in un suo volume recente, "La Turchia bussa alla porta". Certo, chi attacca l'Islam in maniera estrema può correre ancora dei rischi, come è accaduto al noto pittore superlaico Bedri Baykam, accoltellato ieri a Istanbul. Eppure il modello Turchia attrae l'opinione pubblica araba. Ma qual è la percezione reale? Prova a rispondere Mensur Akgun, direttore, alla Fondazione Tesev, di una ricerca condotta nei principali Paesi arabi e in Iran. «L'85% dei 2.300 intervistati ha un'immagine della Turchia decisamente positiva. Viene molto apprezzato il ruolo come mediatore nelle crisi, dalla Palestina all'Iran, mentre l'economia è considerata la più importante della regione, dopo l'Arabia Saudita, quella con le migliori prospettive nei prossimi dieci anni». L'impatto non si limita alla sfera economica e politica. Ankara è un attore culturale di primo piano. Il 78% degli intervistati segue le serie tv prodotte in Turchia. L'ultima puntata della soap opera "Gumus" (Argento) tradotta in arabo "Nour" (Luce), dove i protagonisti bevono alcol e si tradiscono a più non posso, ha stracciato ogni record, con 85 milioni di telespettatori del mondo arabo.

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