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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2011 alle ore 19:19.

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Militari tailandesi si spostano per rinforzare il confine con la Cambogia dopo uno scontro ai confini del ditretto di Phanom Dong Rak (Epa)Militari tailandesi si spostano per rinforzare il confine con la Cambogia dopo uno scontro ai confini del ditretto di Phanom Dong Rak (Epa)

La teoria di Chachavalpongpun, che non nasconde le sue simpatie per il movimento d'opposizione, è sostenuta anche dal Wall Street Journal: «I militari, il palazzo e le elite economiche temono che i supporter del deposto premier Thaksin Shinawatra vincano le elezioni per la quarta volta. Gli ultimi tre risultati sono stati annullati da un colpo di stato e da decisioni giudiziarie…Anche se il loro Puea Thay Party vincesse, è molto probabile che non gli sia concesso di formare un goveno. Quindi si possono prevedere nuovi disordini… In tale contesto uno scontro con la Cambogia potrebbe apparire un modo semplice per uscire da una situazione di stallo. Una guerra limitata con un vicino di casa molto più piccolo potrebbe unificare i thai, mentre le camicie rosse si troverebbero in estrema difficoltà nel chiedere il ritiro dei militari in un momento di crisi nazionale». Senza contare che all'interno delle forze armate ci sono fazioni favorevoli all'ex primo ministro Thaksin e, in caso di vittoria dell'opposizione, l'esercito potrebbe dividersi, mettendo a rischio l'istituzione stessa della monarchia. Ecco perché bisogna impedire che si affermino i "phu mai hwang dee", gli uomini dalle intenzioni nefaste".

Se i militari thai sembrano avere forti responsabilità nella crisi, la posizione cambogiana segue la stessa linea. In questo caso il comandante in capo è de facto è il primo ministro Hun Sen, un ex khmer rosso al governo da oltre vent'anni. Anche per lui il conflitto è un modo di raffreddare la crisi interna, caratterizzata da crescenti tensioni sociali. Al tempo stesso ottiene il risultato di spostare l'animosità popolare dai vietnamiti, suoi storici padrini, verso i secolari nemici thai. Hun Sen, inoltre, si è dimostrato il migliore, se non l'unico, amico di Thaksin nell'area, tanto da averlo nominato consulente economico nazionale. Tra le troppe ipotesi che si stanno formulando in questi giorni, si può avanzare quella che l'ex premier thai sia presentato come il solo interlocutore possibile per risolvere la crisi. Il che, ovviamente, darebbe forza ai rossi. Inoltre il conflitto crea notevole imbarazzo al premier thai Abhisit e al suo partito, verso i quali Hun Sen ha sempre manifestato una forte antipatia.
Abhisit, dal canto suo, appare come uno dei pochi personaggi che sembra mantenere il controllo, almeno di se stesso. Pur muovendosi in un territorio tanto minato quanto le montagne Dangrek, resta fermo sulle sue scelte di base: rifiuta la presenza di osservatori esterni ma è aperto alla mediazione della presidenza dell'Asean, è il più disponibile ai colloqui di pace, ma non è disposto a cedere un centimetro di territorio. Soprattutto ha confermato il prossimo scioglimento del parlamento e le successive elezioni. Probabilmente non pensa di vincere ma investe su un futuro di statista del "nuovo secolo asiatico".

Da entrambe le parti le dinamiche interne alimentano una crisi che potrebbe destabilizzare tutta l'area. Se dopo che questa ennesima tregua il conflitto si acuisse ulteriormente, le nazioni dell'Asean si troverebbero nella situazione di dover scegliere una parte. Ciò provocherebbe uno strappo nell'organizzazione dei paesi del sud-est asiatico: invece di formare un polo economico e politico autonomo, tornerebbero a dipendere in modo più forte da potenze esterne, che siano Cina, India, Giappone, Stati Uniti o addirittura gruppi finanziari dei paesi arabi. E segnerebbe un punto a favore di tutti gli ultraconservatori dell'area che si oppongono alla diffusione dei cosiddetti "valori universali" – quali democrazia o difesa dei diritti umani – in nome dei valori asiatici basati sulla cultura del controllo, la democrazia limitata o la dittatura illuminata.

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