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Questo articolo è stato pubblicato il 26 giugno 2011 alle ore 08:10.

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Il «socio Beruschi» - che neppure ieri ha fatto mancare il suo sketch all'assemblea della Popolare di Milano - era sul proscenio anche quel giorno di primavera del '94. Al Teatro Nazionale: uno dei templi del cabaret milanese, riempito per l'occasione di 2.300 soci Bpm, quasi tutti dipendenti. Gli echi di Drive in erano ancora freschi, ma Beruschi non potè sprizzare l'humour anglo-meneghino di sempre: «Presidente, un giornale ha scritto che sono l'ultimo dei suoi "fan". No: di suoi "fan" ce ne sono ancora tanti». Il «presidente» di turno era Piero Schlesinger, al passo d'addio dopo 23 anni quasi ininterrotti alla guida della Popolare.
«Mani Pulite» cominciava a declinare, ma non cessava di presentare i suoi conti. E il bilancio '93 della Bpm (in utile simbolico: 4 miliardi di vecchie lire) si trasformò in ghigliottina per il grande civilista della Cattolica, che contendeva ad Ariberto Mignoli i galloni di primo avvocato d'affari del "Miglio quadrato" milanese. Schlesinger, davanti all'assemblea, non si schermì: «Sono mortificato che questo sia l'ultimo bilancio firmato da me. Chi sono i responsabili? Io sono il primo e maggiore». Era vero, ma non del tutto.
Schlesinger aveva sicuramente commesso falli da cartellino rosso. Era inciampato nell'acquisto di una società di leasing dall'Ifm, uno dei satelliti della tenebrosa galassia Sasea di Florio Fiorini. Di più: il presidente della Bpm era anche – a titolo professionale – il garante ultimo della famiglia Ferruzzi, che in quella primavera '94 era già rotolata in una tragica bancarotta. E il portafoglio-impieghi della Bpm non ne era sicuramente rimasto indenne, anzi. Ma non sarebbe accaduto se Piazza Meda, già allora, non fosse stata occupata dai 5mila dipendenti-soci, organizzati quasi militarmente su base sindacale.
Il politburo - dal nome anodino: «comitato elettorale» - era formato da 16 delegati sindacali: tanti quanti erano i consiglieri. Tutto era cominciato nei ruggenti anni '50, quando tre presidenti-mostri sacri - Cesare Merzagora, Libero Lenti e Angelo Saraceno - avevano tentato alcune fusioni (Popolare di Roma, Banca Agricola Milanese) che avrebbero annacquato la tradizionale prevalenza dei dipendenti nella compagine sociale: è allora che il bunker viene costruito e da allora la governance sinadacal-centrica di Piazza Meda è via via delizia e croce di tutti gli inquilini del piano nobile, dell'ufficio che da trent'anni si affaccia sul celebre «Disco» dorato di Arnaldo Pomodoro. Una stanza, tuttavia, guardata a vista dai ras sindacali interni.
A rompere l'assedio su cinque lati (Fiba-Cisl, Uilca-Uil, Fisac-Cgil, Fabi e Fasib) ci prova subito il successore di Schlesinger, un altro luminare della Cattolica, Francesco Cesarini. In tandem con il direttore generale Giuseppe Grassano risana la banca, rilancia l'utile e accompagna l'istituto al listino principale di Piazza Affari. Ma quando prova a metter mano alla governance, il fuoco di sbarramento è massiccio. Cesarini riparte dalla concentrazione tra le banche del gruppo (Bpm, Agricola Milanese, Briantea) ma l'opposizione approda perfino sulle colonne del Sole-24 Ore: con una clamorosa lettera anti-Cesarini firmata da 13 consiglieri su 16. Non serve a nulla né il sostegno pubblico della Vigilanza a un programma di riforme statutarie, né la volontà di Cesarini di sfidare i dipendenti-soci in assemblea con una propria lista. Con lui ci sono imprenditori come Maurizio Fumagalli e Cristiano Mantero e assieme tengono il campo, ma nella primavera del '97 i 1.275 voti raccolti nulla possono contro i 5.207 dei dipendenti.

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