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Questo articolo è stato pubblicato il 09 luglio 2011 alle ore 13:05.

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Alla mezzanotte di oggi, sei mesi dopo lo storico referendum qull'indipendenza, dalle ceneri del Paese più esteso dell'Africa nasce lo Stato numero 193 delle Nazioni Unite, il 54° del continente africano. Il Sudan del Sud, tuttavia, somiglia a una creatura che nasce già mutilata. I cui organi vitali sono affetti da virus potenzialmente letali ancora prima che inizi a compiere i primi passi: una corruzione onnivora, endemica, l'assenza quasi totale di infrastrutture (le strade asfaltate sono meno di 100 chilometri), conflitti etnici e tribali apparentemente insanabili, che, secondo l'Onu, da gennaio hanno provocato 2.300 vittime. Mali che, si augurano i più ottimisti, potrebbero essere curati con il petrolio, di cui il Sud è ricco. Dei quasi 500mila barili al giorno estratti l'anno scorso, il Sud ne produce circa l'80 per cento.

Il divorzio, più o meno consensuale - il referendum fu fissato durante gli accordi di pace del 2005 che posero fine a 20 anni di guerra civile e due milioni di vittime - sancirà la nascita di due nuove entità: il Sudan del Sud, a maggioranza cristiana e animista, grande due volte e mezzo l'Italia, coperto di vegetazione e ricco di petrolio. Ma poverissimo: il 90% della popolazione vive con mezzo dollaro al giorno, l'84% è analfabeta, il tasso di mortalità materna è il più alto al mondo. E senza sbocchi sul mare.

Dall'altra parte, il Sudan (del Nord), in larga parte desertico ma con un lunga costa, un grande porto e infrastrutture più sviluppate, grazie soprattutto agli investimenti della Cina, la cui influenza è stata tale che taluni definiscono il Sudan una sorta di colonia cinese. Il Sud, 8 milioni di abitanti, avrà per capitale la polverosa Juba. Il Nord (31 milioni), di etnia araba e musulmano, manterrà il suo centro nevralgico a Khartoum.

Domani decine di capi di Stato africani, incluso il presidente del Sudan Omar al-Bashir, e diplomatici da tutto il mondo parteciperanno alla grande cerimonia, in cui verrà ufficializzata la prima Costituzione, ad interim, del Sud. Balli, fuochi di artificio, migliaia di persone in strada. Ma c'è ancora poco da festeggiare. Perché le questioni più spinose sono ancora irrisolte: i due Paesi ancora non sanno come gestiranno le risorse petrolifere, come e se si spartiranno il grande debito, un fardello da 38 miliardi di dollari, e quali saranno i confini (una frontiera definitiva ancora non c'è).

Due aree, oggi, sono gravi motivi di preoccupazione, due potenziali casus belli: la regione petrolifera del Sud Kordofan, parte del Sudan del Nord, ma abitata da etnie, soprattutto la Nuba, che durante la guerra si sono schierate con il Sud. La regione è oggi lacerata da gravi scontri tra ribelli ed esercito. E Abyei, la regione contesa, un calderone multietnico - in cui i Dinka Ngok, pro Sud, rivaleggiano con i Misseriya, pro Nord - grande quanto gli Abruzzi, con pochi pozzi di greggio ma ricco di pascoli. A oggi la sua linea di confine non è stata demarcata. Abyei resta un regione a status speciale. Dove un contingente di pace etiope, 4.200 soldati, su mandato dell'Onu, e con l'accordo di Nord e Sud, avrà il compito di proteggere i civili e vigilare su una zona cuscinetto. Abyei, secondo gli accordi di pace del 2005, avrebbe dovuto tenere un referendum a gennaio per stabilire se unirsi al Sud secessionista. Ma Khartoum è stata finora inflessibile: nessun referendum se prima non saranno appianate le divergenze, tra cui chi ha diritto di voto.

Abyei resterà così una spada di Damocle. I due Paesi dovrebbero quasi fingere che non sia un problema, e mettersi al tavolo per cercare di trovare un accordo energetico. Fu proprio la volontà di spartirsi le grandi risorse petrolifere (50% ciascuno) la ragione principe che nel 2005 portò Sud e Nord al tavolo di pace. Da allora, grazie soprattutto agli investimenti cinesi, la produzione decollò. Anche oggi la grande speranza è che l'oro nero funga da collante tra i due Paesi. Che, insomma, vinca il pragmatismo. Il Sud ha sì molto petrolio ma non può fare a meno degli oleodotti del Nord per trasportarlo, né dei suoi impianti per raffinarlo o dei suoi porti per esportarlo (finché non sarà costruita una pipeline con il Kenya). Ognuno ha bisogno dell'altro. Perché le due rispettive economie soffrono ancora di petro-dipendenza: per il Sud i ricavi energetici rappresentano il 98% delle entrate governative, per il Nord il 45 per cento. Lo sanno bene i cinesi, che acquistano i 2/3 del petrolio esportato dal Sudan. E che hanno offerto l'ennesima lezione di pragmatismo: continuano a dialogare con Khartoum come con Juba, dove dal 2008 hanno aperto un consolato.
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