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Questo articolo è stato pubblicato il 10 luglio 2011 alle ore 08:10.

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ROMA
Silvio Berlusconi questa volta è rimasto in silenzio. Almeno ufficialmente. Ha annullato il viaggio a Lampedusa, dove sarebbe dovuto arrivare con la figlia Marina, preferendo smaltire la rabbia nella villa di Porto Rotondo in Sardegna. La condanna era data per scontata. Meno l'entità del risarcimento e le motivazioni che accompagnano il verdetto dei giudici in cui si parla esplicitamente di «corresponsabilità in corruzione». Il compito di reagire alla sentenza che condanna Fininvest al pagamento di 560 milioni alla Cir di De Benedetti, il Cavaliere lo ha lasciato alla figlia Marina, che di Fininvest è il presidente.
La primogenita del premier bolla il verdetto della Corte d'Appello come «l'ennesimo scandaloso episodio di una forsennata aggressione portata avanti da anni contro mio padre» e della quale sarebbe protagonista una «parte della magistratura», in particolare quella «milanese» oltre che il gruppo guidato da De Benedetti. Il presidente della Fininvest si ribella, parla di «esproprio», dice di aver operato sempre «nella più assoluta correttezza», che «neppure un euro» deve essere versato all'Ingegnere, definendo «spropositati» i 560 milioni: «Una somma addirittura doppia rispetto al valore della nostra partecipazione in Mondadori».
Marina è un fiume in piena. Il Cavaliere invece tace. Ma è facile intuirne i pensieri. Chi gli ha parlato lo descrive amareggiato. «La tessera n.1 del Pd ha vinto», avrebbe confidato con riferimento a De Benedetti. «È una botta pesante ma dobbiamo combattere e andare avanti», ha detto Salvatore Sciascia che oltre a essere senatore Pdl è anche membro del Cda di Fininvest (fu condannato per corruzione). E in questo «andare avanti», c'è certamente il ricorso in Cassazione (Niccolò Ghedini è convinto che la Suprema Corte «non potrà che annullare questa incredibile sentenza») e la richiesta di sospensione dell'esecutività del verdetto per i gravi e irreparabili danni che provocherebbe a Fininvest. Ma non si esclude neppure un passo dagli esiti imprevedibili: un emendamento alla manovra per contenere gli effetti della condanna. Un'ipotesi che deve essere valutata tenendo conto dei «tempi tecnici» processuali. Un vero e proprio blitz, che arriverebbe quando la manovra approderà nell'aula del Senato. «È possibile ma dobbiamo capire se ne vale la pena», è il ragionamento che si sta facendo in queste ore negli ambienti vicini al premier. La posta in gioco è altissima: il rischio di mettere in pericolo la manovra e la stabilità del governo. Eppure proprio il decreto sulla correzione dei conti sarebbe la ciambella di salvataggio più adatta. Non solo perché è l'unica che potrebbe arrivare in tempo. Ma soprattutto perché nonostante la contrarietà già manifestata, il Capo dello Stato potrebbe alla fine essere costretto a dare il via libera pur di non ritardare il varo della manovra. Resta l'incognita Lega. Il Carroccio sulla prima versione della salva-Fininvest si è messo di traverso. Ieri Bossi si è limitato a parlare di «sentenza pesante, spero non politica». Ma anche per la Lega potrebbero valere le stesse ragioni di Napolitano, ovvero «il rischio Grecia» come l'altro giorno l'ha definito il Senatur, che però, dopo il gesto di responsabilità, potrebbe cogliere l'occasione per staccare la spina all'amico Silvio.
Il Pdl intanto fa quadrato. «Siamo certi che questo episodio non toglierà al premier la serenità necessaria per governare, come ha sempre fatto, nell'interesse esclusivo dell'Italia e degli italiani», ha detto il ministro della Giustizia e neosegretario Pdl Angelino Alfano. Meno diplomatici i colleghi di partito. Maurizio Lupi parla di verdetto «fuori dal mondo», Fabrizio Cicchitto di «sentenza annunciata», mentre Maurizio Sacconi richiama al l'unità dei moderati nel momento «di massima aggressione mediatica-giudiziaria» contro il premier e Sandro Bondi invoca l'invio di «osservatori internazionali». Sul fronte opposto il Pd in una nota definisce «eversive» le dichiarazioni di Marina Berlusconi. Rosy Bindi aggiunge che è ora che «L'Italia si liberi di Berlusconi. Concetto ribadito anche da Antonio Di Pietro: «Da questa vicenda dobbiamo rilevare che solo in Italia il premier non si dimette dopo essere stato condannato per avere truccato le carte e corrotto un giudice».
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