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Questo articolo è stato pubblicato il 24 luglio 2011 alle ore 14:54.

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C'è un paradosso nella crisi finanziaria americana: se lo Stato ha un buco di bilancio che appare incolmabile, le aziende private hanno surplus di cassa invidiabili: la stima ufficiale per le aziende dell'S&P 500 e' di 960 miliardi di dollari.

Apple da sola ha una posizione di cassa di 76 miliardi di dollari dopo i profitti dell'ultima trimestrale. Una cifra superiore al Pil di 126 stati sovrani. Complessivamente si parla di una liquidità del settore privato "corporate" che supera i 2mila miliardi dollari. Basterà per ridare fiducia al mercato se non ci sarà accordo politico su come e quanto ridurre il disavanzo pubblico? Se le agenzie per la valutazione del Credito dovessero declassare, magari già dalla settimana prossima, l'America dal suo triplo A? Se gli investiori stranieri dovessero rivedere le loro allocazioni di portafoglio? Soprattutto: confermerà sul piano ideologico quel che vanno dicendo i repubblicani, e cioé che dare quattrini allo stato è fallimentare, molto meglio puntare tutto sul settore privato?

Il dato sulla liquidità del settore privato corporate è importante: vorrà dire che le aziende non saranno dipendenti dal debito e che le banche avranno un problema in meno di cui occuparsi nel processo di recupero crediti. E potrebbe portare a un altro paradosso, quello di veder alcune aziende americane con una tripla A, superiore dunque al loro stesso rischio sovrano. Tutto vero. Ma non basterà. Se già la settimana prossima ci sarà un declassamento del rischio America, dovremo prepararci a un piccolo terremoto psicologico fra gli investitori, improvvisamente orfani di un benchmark fino ad oggi incrollabile. Il dollaro si indebolirà e ci sarà un'altra fuga sull'oro, anche se autorevoli investitori che ho ascoltato in questi giorni affermano che in parte la dinamica è già scontata nei prezzi attuali.

Anche perché non c'é bisogno di un brutto voto di Standard and Poors o Moody's per accorgersi che la posizione finanziaria americana è a rischio. Solo per quest'anno fiscale l'aumento del debito sarà di oltre 2mila miliardi di dollari. Una cifra che da sola azzera la liquidità delle aziende. Le stime per l'output americano per la fine dell'anno sono intorno ai 15.332 miliardi di dollari, quelle per lo stock di debito (una volta superata l'antipatica questione tecnica del tetto), sarà a quota 15.476 miliardi di dollari. Con un rapporto pari al 102%.

E sappiamo bene che cosa ci hanno detto gli economisti Ken Rogoff e Carmen Reinhart nel loro libro di analisi su 800 anni di storia del debito sovrano: quando un paese supera la soglia del 90% nel rapporto indebitamento/Pil ha gravi difficoltà nel suo processo di crescita. Queste difficoltà in America le vediamo ogni giorno: l'occupazione è stagnante, le aziende, pur avendone la possibilita', non investono in occupazione e il Pil è ormai da tempo al di sotto del suo tradizionale potenziale di crescita. E le onde lunghe internazionali? I riallocamenti dei portafogli? I possibili aggiustamenti al ribasso di altri rischi paese che erano legati direttamente al benchmark americano? L'aumento del costo del danaro sul mercato per le banche americane che hanno molto debito del Tesoro in portafoglio? Venerdì a Washington il Tesoro con Tim Geithner e la Fed con Ben Bernanke e William Dudley si sono preparati proprio a questo, al cosiddetto "ripple effect", l'effetto a catena. All'estero i più preoccupati sono i cinesi, maggiore detentore di debito americano all'estero.

La dipendenza dall'estero inoltre è aumentata esponenzialemtne negli ultimi decenni, dal 13% del 1988, al 32% di oggi. La quota di Pechino è pari al 26% circa del totale dell'esposizione estera americana. Seguono a ruota il Giappone e la Gran Bretagna. Ma le singole quote straniere restano contenute. Per il 68,1% della sua esposizione infatti, l'America è indebitata con se stessa, un fattore rassicurante. Con questa suddivisione, il 42,2% è in mano ai risparmiatori americani, sia individuali che istituzionali, il 17,9% è in mano al fondo pensione nazionale, l'8,2% è in mano ai fondi dipendenti pubblici inclusi i militari. La quota cinese è enorme ma resta pur sempre del 7,5% sul totale. Il Giappone è al 6,4% e la Gran Bretagna al 3,4 per cento.

Siamo dunque vicini ad Armageddon, alla fine del mondo, come ha detto Barack Obama la settimana scorsa se non si farà un accordo nei prossimi giorni? No. La questione del tetto sul debito è tecnica. John Boehner ha dato ampie rassicurazioni: l'America non andrà in default. Il vero problema resta la questione solidità dei conti. Se la battaglia di queste settimane a Washington è stata epica è perché in gioco vi è la solita scelta filosofica di fondo sul giusto equilibrio fra stato e mercato. Forse dovremo aspettare le elezioni del 2012 per capire la nuova direzione americana. Ma su un punto si può essere certi: ricorderemo il 2011 come l'anno in cui cambiarano le dinamiche degli equilibri finanziari mondiali.

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